Dopo il terremoto, lo tsunami dell’informazione

Foto © Caritas Anatolia

Già era successo un anno fa con l’attacco russo all’Ucraina: migliaia di video vennero subito messi in rete da singoli cittadini che con il telefonino riprendevano ciò che stava succedendo nella propria città (nel proprio paese, anche periferico, nella propria casa, nella fermata della metropolitana o lungo le vie di fuga verso la Polonia) e poi postava i video sui diversi social facendo in modo che tutto diventasse di dominio pubblico. La globalizzazione della cronaca, sino alla globalizzazione della guerra, con il rischio – lo stiamo verificando da mesi, ormai – di una sorta di assuefazione anche rispetto alle immagini più drammatiche.

La stessa cosa sta succedendo nella vasta area colpita dal terremoto, a cavallo della Turchia e della Siria, dove il sisma ha distrutto tutto ciò che era stato in qualche modo risparmiato della guerra. Dopo le scosse, siamo stati invasi da immagini terribili, di quartieri rasi al suolo, di abitazioni ripiegate su se stesse, a dimostrazione di come la natura possa essere addirittura più feroce della mano di Caino che oggi utilizza armamenti così “intelligenti” e sofisticati che non colpiscono gli eserciti, ma devastano, volutamente, le comunità dei civili: Aleppo era – è – la città simbolo di questa “pazzia” (come la chiama papa Francesco), bombardamenti a ritmo continuo, senza sosta, senza pietà. Ora anche la devastazione provocata dalla terribile onda sismica che nulla sembra aver risparmiato.

Tutti lo chiamano il “terremoto di Turchia e Siria”, ma la narrazione che ci viene proposta riguarda soprattutto la zona turca, non quella siriana, men che meno quella abitata dai curdi. La geopolitica condiziona anche le tragedie. A partire dalle condizioni oggettive, per così dire, “sul campo”. Le immagini, infatti, arrivano soprattutto dalla Turchia. Pochissime quelle che arrivano dalla Siria dove un decennio di guerra ha distrutto tutto ciò che poteva distruggere, non solo le strutture, ma anche l’organizzazione sociale, della sanità, dell’assistenza minima alle persone.

Le uniche testimonianze che arrivano da Aleppo sono quelle dei frati francescani, dell’Associazione Pro Terra Santa e di qualche altra organizzazione internazionale. I giornalisti sono tenuti lontani come pure le colonne di aiuto. I social portano pochi video, le televisioni hanno cura di evitare di evidenziare i bisogni di un Paese messo ai margini della comunità internazionale.

Sulla Siria pesa ancora la scelta dei Paesi occidentali di imporre le sanzioni al regime di Assad, scelta che, per ora, nemmeno il terremoto sembra aver messo in discussione anche se a pagarne gli effetti sono sempre le persone più fragili, non certo gli oligarchi di regime. Non a caso, poche ore dopo il terremoto, è stato il Custode di Terra Santa a chiedere la sospensione delle sanzioni: “Sono disumane e immorali”, ha detto fra Francesco Patton. Un invito che non ha avuto grande eco, forse proprio perché l’informazione ai tempi dei social è oggettivamente globale, ma risponde a criteri ben precisi: se non ci sono le immagini, se non ci sono le dirette, se non si provoca una reazione emotiva, non c’è partita. E poi, nell’epoca dell’informazione che semplifica, è del resto difficile spiegare la complessità e la situazione siriana che è maledettamente complicata: non ci sono solo buoni e cattivi, non c’è solo il regime e i ribelli, ma ci sono vittime da ambedue le parti.

Il terremoto non ha guardato le bandiere che – perché negarlo? – rimangono riferimenti anche per l’informazione che corre sui canali digitali.
Prevale dunque la capacità turca di interloquire con l’Occidente che da tempo ha scelto di soprassedere sulle strategie di Erdogan che, dopo il terremoto, ha pensato bene anche di chiudere Twitter perché le immagini delle distruzioni è giusto che arrivino a tutto il mondo (sollecitando gli aiuti), ma le proteste per i ritardi dei soccorsi e per la disorganizzazione della macchina statale, beh, tutto questo è meglio che non emerga.
Rimane sullo sfondo anche la questione delle fake news: i siti specializzati nel “fact-checking” (il controllo della veridicità e della completezza delle varie notizie) hanno messo in evidenza un numero incredibile di “video fuori contesto”: crolli e devastazioni che vengono descritti come situazioni relative al terremoto della Turchia e della Siria e che invece riguardano altre tragedie, altre distruzioni, in altre parti del mondo, in anni più o meno recenti. Persino qualche sequenza cinematografica.

La domanda è persino ovvia: di fronte a tanta distruzione, è necessario andare a cercare altre immagini? Anche la risposta è scontata: le macerie di un’intera città sono meno spettacolari del video anche di un solo palazzo che crolla, ovunque esso sia. Così come le immagini dei cani che cercano tra le case distrutte: “fanno like”, si dice, sono necessarie al racconto, poco importa che siano attuali o scovate da qualche parte, “tanto i cani non sono identificabili e le distruzioni sono tutte uguali”. E in rete nessuno controlla.

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La rivoluzione della Rete – dietro alla sua apparente democraticità, che ci illude di poter sapere tutto, subito, gratuitamente – ha di fatto abolito definitivamente la distinzione tra cronaca e fiction. Ben venga dunque una riflessione come questa, che ci richiama all’esigenza di pensare che troppe volte niente è come sembra e di esercitare il nostro diritto a non essere presi in giro da un’informazione spesso inventata di sana pianta.

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