Non è un capolavoro. E non è una boiata pazzesca. Ma forse – nel tunnel infinito della pandemia – “Don’t look up” di Adam McKay paradossalmente ci cura dalla paura della fine di Tutto.
Mio cognato Sal, che è tra le 100 persone che hanno visto più film al mondo, è entusiasta: “Film intelligentissimo e con una sceneggiatura geniale. Un’invenzione e un’idea ogni 5 minuti. Non mi divertivo così con un film americano da tantissimo tempo. Voi intellettuali italiani non sapete più divertirvi”.
Uno ci prova, a guardare Don’t look up e a non commentarlo. Ma poi ne parlano tutti. E allora parliamone.
Una dottoranda in astrofisica fragile ma ovviamente carina (Jennifer Lawrence) – vecchio fidanzato pessimo e quello nuovo così tenero – scopre, tra una fetta biscottata e l’altra, che una cometa enorme farà a pezzettini il nostro pianeta nel giro di sei mesi, il tempo di finire la dieta. Allerta il collega un po’ sbalestrato ma empatico (Leonardo DiCaprio) che a sua volta allerta le autorità astronautiche, che a loro volta allertano una sbalenghissima presidente degli Usa (una trumpiana, tremenda super Meryl Streep) che ha scelto come capo di gabinetto il suo figliolo scortesissimo.
Sulle prime madam president minimizza e allora i due scienziati vanno in tv in un programma fesso dove vengono ridicolizzati, se non che poi lo scienziato cinquantenne finisce a letto con l’anchorlady glamour (Cate Blanchett) e diventa anche lui una superstar, alla notizia finiscono per credere (quasi) tutti, la presidente allarma poi rassicura poi conia lo slogan “non guardare in su, don’t look up”, niente panico. E allora entra in scena il perfido miliardario filantropo (Mark Rylance) che organizza il contrattacco nello spazio con tecnologie improbabili e… non rovino il finale a quei tre-quattro che non l’avessero visto.
Aggiungo solo che c’è una spolverata di religione, a ricordarci – forse il momento più “umano” del film – che non dobbiamo sprecare quel po’ di amore che si riesce a mantenere caldo attorno a una tavola, parlando del modo migliore di fare il caffè (le “tranquille ma nutritive gioie familiari” le chiamava mio padre con affettuosa autoironia) perché le piccole cose di tutti i giorni ci salvano la vita.
In “Don’t look up” c’è tutto e di tutto. Troppo. Inclusa la star pop Ariana Grande nell’imitazione di se stessa. C’è un prevedibile plot catastrofico. Ci sono i dialoghi acchiappa-risata. Ci sono la presidente svampita (l’incidente fatale che le capita è puro piacere), l’americano medio eroe incorruttibile o quasi, c’è la satira dei media, della politica, del successo, del mondo interconnesso, di come siamo ridotti. La satira della satira. Una summa di film già visti: fantapolitica, fantascienza, fantaecologia, Elon Musk e Donald Trump, l’America e quindi noi. Tutto.
Ciò che manca è un guizzo che ci spiazzi, un colpo di genio che ci faccia restare a bocca aperta. Come i re magi davanti alla cometa buona. Intanto, quella cattiva ci fa quasi passare la paura del Covid.
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