I lettura:: Atti 9,26-31;
II lettura. 1Gv 3,18-24;
Vangelo: Gv 15,1-8
La tecnica moderna riesce così bene a riprodurre le cose naturali da farle sembrare vere. Capita, ad esempio, di entrare in certi ambienti, notare le piante rigogliose che li decorano, e chiedersi: ma …sono vere o sono artificiali? Non di rado ci si accosta e si tocca, per accorgersi che si tratta di manufatti. Quei fiori non appassiscono mai, le foglie non ingialliscono e non cadono: restano sempreverdi; ma si sa altrettanto bene che non ne spunteranno mai di nuove e che quei fiori non diventeranno mai frutti. Non è che il Cristianesimo in Occidente è in crisi perché è fatto di cristiani di plastica invece che di cristiani autentici? Non è che molti tra i giovani non ne sono affatto attratti perché hanno visto in noi dei cristiani artificiali invece che dei credenti vivi? E dove sta la differenza? In questa alternativa: chi è Gesù Cristo per me? Persona viva con la quale sono in relazione, o personaggio da museo? La vera insidia, il pericolo più micidiale per la fede oggi non è tanto l’opposizione o l’indifferenza di coloro che non credono: è l’evanescenza della figura di Cristo, il fatto cioè che egli non ha alcun posto di rilievo nella vita reale delle persone. Non è il Vivente. E’ ridotto a personaggio: illustre, forse, ma superato, vissuto in un tempo lontano e diverso dal nostro. L’esperienza cristiana a questo punto si riduce a insegnamenti, regole di condotta, valori… Cose importanti, certamente, ma che non possono sostituire il rapporto vivo con quel Cristo che afferma in tutta schiettezza:«Senza di me non potete fare niente». Ci si ferma pertanto al suo insegnamento morale, alle pratiche religiose ‘cristiane’; ci si accontenta di non superare mai certi limiti. Ora, se l’esperienza cristiana si riduce a questo, la fede non raggiungerà mai il fondo del nostro essere, ma solo la periferia, la facciata. E l’esperienza non potrà mai essere feconda, gioiosa, creativa. Né, tantomeno, affascinare qualcuno.
Proprio il vangelo di questa Domenica ci pone dinanzi il presupposto da cui non si può assolutamente prescindere: “Io sono la vite e voi i tralci – è Gesù ad affermarlo. Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto… Chi non rimane in me, viene gettato via come il tralcio e si secca…”. Sì, occorre essere innestati in lui, come tralci nella vite. La fede è relazione forte, appassionata, con Cristo, o non è fede. E che cosa vorrà dire “rimanere” in lui? La fede è relazione, dicevo. Non può ridursi una relazione a qualche momento passeggero: è un radicamento stabile, intimo, fedele soprattutto. Non per nulla la Bibbia paragona la Fede a un legame tra sposi (e non per nulla l’anello che gli sposi portano al dito si chiama “fede”!). Cristiani veri… o cristiani artificiali? chiedevo in apertura. La nostra autenticità, la possibilità di essere veri e di produrre frutto, è condizionata a quel rimanere stabilmente innestati in Gesù, che è fatto – come in ogni relazione – di reciprocità, perché se noi siamo invitati a rimanere ben innestati in Lui, Lui pure desidera rimanere in noi, con le sue parole, con la vitalità che ci trasmette in ogni Eucaristia. E a lato pratico, cosa vorrà dire tutto ciò? Senz’altro ha a che vedere con un ascolto assiduo del vangelo, e con un personale confronto tra quel vangelo e le nostre scelte, i nostri abituali atteggiamenti e comportamenti. A volte sarà un confronto che ci incoraggia, ci tira su di morale, ci ridà carica; altre volte magari ci rimprovera, oppure ci pungola, ci costringe a cambiare…
Io rimango davvero in Cristo quando mi prendo a cuore la mia relazione con lui, vale a dire: la mia vita spirituale, nella quale trova posto la preghiera, il silenzio che mi permette di richiamare alla mente le sue parole, e anche il confronto con qualcuno che mi possa fare da guida. E tutto ciò non occasionalmente, ma con fedeltà, in continuità. Non perché si deve, ma per amore. Ecco cosa può voler dire “rimanere in Cristo”. “Comunione” insomma. Nelle nostre Comunità questo è tempo di Prime Comunioni. La cosa interessa ovviamente certe famiglie, ma in una Comunità cristiana – che è famiglia di Dio – ciò che riguarda alcuni riguarda tutti. E’ d’obbligo domandarsi: la nostra vita scorre davvero in comunione con Cristo? Le nostre Comunioni ci aiutano davvero a stabilirci sempre più saldamente in lui, o sono momenti passeggeri e del tutto isolati dal contesto della nostra vita reale? Nella vita ci sono anche stagioni di fatica, tornanti di prova, salite su cui arrancare, sudare, e anche soffrire; a volte ci si chiede: perché? Che senso ha tutto questo? In questa Domenica ci è offerta un po’ di luce: “Il Padre mio è il vignaiolo – afferma Gesù. Ogni tralcio che in me non porta frutto lo toglie, e quello che porta frutto lo pota, perché porti più frutto…”. Certe difficoltà, prove, problemi che dobbiamo affrontare non sono accidenti che capitano a casaccio e senza alcun senso; possiamo chiamarli potature: sì, anche le viti piangono in seguito alle potature, ma non darebbero frutto senza di esse. Rimanere in Gesù ben innestati, consentendo alla sua linfa di passare nei tralci (che siamo noi) è il segreto per accettare positivamente, se pure con fatica, certe potature. Quanto ai frutti, ce li lascia intravedere san Giovanni nella sua lettera, là dove ci esorta: Figlioli, non amiamo a parole o con la lingua, ma con i fatti e nella verità. Ecco i frutti. Auguriamoci che possano maturare in abbondanza.
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