Credenti increduli: perché?

I lettura: Atti 3,13-15.17-19;

II lettura: 1Gv 2,1-5a;

Vangelo: Lc 24,35-48

“Che fatica credere!” si sente esclamare ogni tanto. Ma non è detto che, per poter credere senza troppa fatica, tutto deva andar bene, liscio come l’olio. Ci sono situazioni nelle quali tutto va storto, e le persone credono lo stesso, anzi, più decisamente di prima. Come ci sono persone che, in quelle stesse situazioni, non credono più, o lo pensano quantomeno. Ma allora, da cosa dipende il credere? Perché la fatica di credere alcuni l’accettano e altri invece no? I motivi sono molteplici e diversi, e per quanti ne possiamo elencare, alla fine si arriva sempre a quel mistero di libertà che è il cuore d’ogni persona: nessuno può entrarvi, nemmeno Dio, a meno che non gli si apra dall’interno. La porta del cuore umano si apre solo dall’interno infatti.

Nel vangelo della prossima domenica comunque osserviamo che se noi – uomini e donne – facciamo fatica a credere in Dio, in Gesù Cristo risorto e vivo, anche Lui fatica a… farsi credere “vivo e reale” in mezzo ai suoi discepoli. “Gesù in persona stette in mezzo a loro… Sconvolti e pieni di paura credevano di vedere un fantasma”… Non vi pare che qui si parli di noi, in definitiva? Noi non siamo sconvolti forse, ma un po’ increduli sì: sarà per l’abitudinarietà nel partecipare alla Messa della Domenica, sarà che le cose che diciamo e cantiamo le prendiamo per belle parole invece che per realtà, sarà che anche all’Eucaristia ci portiamo sempre appresso il nostro mondo di interessi che finisce con l’essere l’unico dio in cui crediamo davvero, fattostà che tutto questo insieme di motivi fa di noi – diciamolo francamente, senza offesa per nessuno – dei credenti un po’ increduli. Ebbene, ci consola il fatto che anche Gesù fa la sua bella fatica a farsi credere vivo e tangibile da noi… Sa che, per bene che vada, pensiamo a lui come a una specie di fantasma: “Perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Un fantasma non ha carne e ossa come vedete che ho io…”. – “Avete qui qualcosa da mangiare?”. Noi, ad ogni Eucaristia, portiamo pane e vino che lui dopo un po’ ci restituisce come suo corpo e sangue con l’invito a mangiarne: è l’ultima prova tangibile (ma è giusto chiamarla così?) che Lui è davvero risorto ed è tra noi vivo. Ma non basterà neanche questa per togliere alla nostra fede la fatica; anzi, per quante prove possa darci Dio, nessuna di esse basterà a toglierci dubbi e perplessità.

Chi rifiuta di credere, stia tranquillo: non ci sono segni o prove tali da costringerlo a farlo. Il cuore, dicevo, è una porta che si apre solo dall’interno. E a volte è talmente abituata a restare sempre chiusa, che se uno decidesse di aprirla dall’interno, non ce la fa: è come se fosse diventata un tutt’uno con lo stipite o con il muro… La Bibbia, a questo proposito, parla di “cuore indurito”, cuore di pietra. Ma cos’è che può indurirlo a tal punto?

C’è un ritornello in questa 3° Domenica di Pasqua che è come una diagnosi su questa sclerosi del cuore su cui stiamo riflettendo: “Convertitevi e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati” grida Pietro alla gente di Gerusalemme. L’anziano Giovanni, dal canto suo, manda a dire ai cristiani: “Vi scrivo queste cose perché non pecchiate… ma se qualcuno ha peccato, sappia che abbiamo un Paràclito presso il Padre nostro: Gesù Cristo, vittima per i nostri peccati e per quelli di tutto il mondo…”. Gesù stesso poi, nel vangelo, conclude il suo discorsetto a quei discepoli increduli, con queste parole: “Nel mio nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati…”. Qualcuno dirà: “Eh, ma insomma! Sempre con questo peccato… Non fate altro che parlare di peccato voi preti! Ma possibile che la Chiesa non sappia dire altro? Non vi accorgete di quanto siete anacronisti a parlare sempre di peccato?”. Al che possiamo ribattere che sì, forse potremmo adoperare altre parole, ma la realtà che sta dietro non cambia di molto. Non è di molti anni fa’ la spietata analisi del Censis che denunciava tra gli italiani “una vera e propria crisi antropologica” della quale ecco i sintomi più rilevanti: “gli italiani adulti risulterebbero aggressivi, insoddisfatti e paurosi, vogliosi di ‘fare sempre i giovani’, incapaci di controllo delle loro pulsioni, con la crisi dell’autorità e il declino del desiderio, con riferimenti a valori e ideali comuni sempre più deboli, con una crescente fragilità dei legami e delle relazioni sociali. Ogni individuo tende ad essere regola a se stesso, in maniera sempre più autoreferenziale”. Che se poi si entra nello specifico dell’esperienza religiosa, ecco che “molti ritengono di essere buoni cattolici anche senza tener conto della morale della Chiesa”. Al che non mi pare azzardato concludere: sì, evitiamo pure di parlare di peccato, ma tutto questo che cos’altro è? Il peccato che grava sul cuore alla fin fine è il vero grande ostacolo alla fede. È allora che Dio si riduce a un’idea, o ad una specie di fantasma.

No, non presumiamo di essere noi i giudici di noi stessi; lasciamo che sia Dio a valutarci e a usarci misericordia. Ci vede bene Dio. E se ci parla spesso di conversione e di perdono di peccati, è proprio perché è l’unico che ci vede bene. Nessuna meraviglia se a volte è faticoso credere, ma che almeno non ci sia quel peso sul cuore: lasciamo che Dio ce lo tolga di mezzo. Diamogli la consolazione di essere misericordioso con noi. È anche per questo che Gesù, il vivente, viene tra noi ogni domenica, ad ogni Eucaristia.

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