I lettura: Giobbe 19,1.23-27a;
II lettura: Romani 5,5-11;
Vangelo: Giovanni 6,37-40
Folle entrano ed escono dai cimiteri in questi giorni, ma quanto sono diversi i sentimenti che animano e muovono questo andirivieni! C’è chi si avvicina alle tombe dei suoi cari con il ricordo dei loro volti, della loro storia, dei giorni vissuti insieme, ma con la rassegnata convinzione che ormai non ci sono più: finiti, scomparsi per sempre. C’è chi crede invece che non è affatto così: aldilà della morte si è aperta per loro una prospettiva di vita così piena ed esaltante che noi non riusciamo nemmeno ad immaginare. Ma c’è anche chi si porta dentro tanti dubbi, tante perplessità, che si affacciano non solo di fronte alla morte, ma già nel corso della vita.
Quando, ad esempio, la malattia – grave e incurabile – demolisce poco a poco qualcuno che ci è caro, o allorchè la morte ce lo rapisce in un incidente senza alcun preavviso… come non chiedersi: dov’è Dio? Se esiste, perché non è intervenuto, perché non fa qualcosa? Un atroce interrogativo che subentra soprattutto allorchè si tratta di bambini, di innocenti: Perché li lascia morire? Perché alcuni se ne devono andare quando la loro vita è ancora soltanto agli inizi? “Signore, perché?”. Ma la fede non risponde a questi “perché?”, forse per il motivo che non è un prontuario con tutte le spiegazioni possibili, ma una scialuppa di salvataggio, una mano tesa a chi rischia di essere inghiottito dai flutti.
Gesù Cristo, nel vangelo di questa domenica ci assicura: ”Io non posso perdere nessuno di quelli che il Padre mi ha affidato”. Parole forti, parole molto impegnative per lui. No, non è mai assente Dio dalla nostra vita; ma non è qui per impedirci di soffrire e morire. Gesù Cristo non è venuto in questo mondo con l’intento primario di cancellare il dolore e la morte. Lui stesso ne ha fatto l’esperienza. Il motivo per il quale è venuto è ben più decisivo: aprire i nostro orizzonti, farci comprendere che il bene più grande non è una vita lunga anziché breve, o un infinito sopravvivere; l'essenziale sta nel vivere già adesso una vita nuova, diversa.
Il peggior pericolo di cui avere paura è una vita sbagliata, senza senso, non la morte; una vita vuota e inutile è molto peggio che la sua fine. Perché quella fine, per Gesù Cristo e per coloro che si affidano a lui, non è affatto una fine: è una frontiera, l'ultima, che si attraversa per andare oltre. E oltre c’è la patria, la casa, quella definitiva, quella che non lasceremo mai più.
Sì, ma tutto questo non è facile da condividere, da credere, e perciò va detto sì, ma con umiltà, senza arroganza. Non c’è da meravigliarsi se molti oggi non condividono una tale visuale: questo mondo è diventato così attraente (nonostante le sue contraddizioni), la nostra vita si è fatta così vivibile, inebriante, da favorire l’idea che sia tutto qui ciò che c’è da godere… e dopo: il nulla. Le cose visibili si sono fatte talmente affascinanti e belle, che quelle invisibili (nelle quali affermiamo di credere) si sono in un certo senso… sbiadite. “Io credo, risorgerò…” si canta ai funerali, ma è più facile cantarlo che crederlo. È diventato addirittura anacronistico, incomprensibile, certo vocabolario cristiano tradizionale (fatto di parole quali paradiso, inferno, risurrezione, vita eterna…), a meno che non ci si aggrappi saldamente a qualcuno che ce ne dà garanzia con tutta la sua persona. E chi esattamente? Gesù Cristo, il nostro Signore.
Noi cristiani non siamo quei tali che riguardo all’aldilà hanno certe idee che altri non hanno: noi siamo quelli che credono in Gesù Cristo. E ci sforziamo di credergli nel modo più vitale che ci possa essere, cioè affidandoci a lui tutti i giorni come alla prima tra tutte le persone più care e affidabili che conosciamo. Perché Gesù Cristo è vivo (anche se troppi, se pure cristiani, lo ignorano); e siccome è risorto dai morti, lui è l’unico ad avere esperienza di aldiqua e di aldilà. Non ci si illuda: se si prescinde da una relazione vitale con Gesù Cristo, non è possibile credere in quell’aldilà che la fede lascia intuire: si tratta puramente di teorie che non stanno in piedi. La provocazione a legarci con forte vincolo di amicizia a Gesù Cristo, ce la richiama san Paolo (nella seconda lettura di questa prossima domenica): “…a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”. Ci vuole coraggio ad accettare di morire per dei “poco di buono”; o meglio: ci vuole il coraggio di un grande amore. E non generico, ma “personalizzato”. Gesù Cristo non mi richiede attestati di buona condotta, non mi rinfaccia le mie debolezze, anzi: mi ama come sono, con i miei pregi e con i miei difetti… Ecco perché è possibile rispondere con un legame del tutto personale. Anche la vita, con le sue prove e le sue fatiche, diventa vivibile quando la si vive in amicizia con lui. E quando arriva l’ora di passare l’ultima frontiera, sarà lui stesso ad accoglierci in quella casa, in quella patria, dove siamo conosciuti e attesi da sempre.
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