La necessità di passare da una centralità della malattia ad una centralità del paziente
Dott. Noro, Lei sa bene che l' impatto con l’ospedale, soprattutto per la persona che non vi è mai stata ricoverata, può essere davvero traumatizzate. Quale consiglio può dare a noi familiari per aiutare ad affrontare questo passaggio? Ed ai suoi collaboratori di reparto – medici o infermieri – da primario cosa raccomanda rispetto all’accoglienza del paziente anziano?
Lettera firmata
L’umanizzazione e l’accoglienza del ricovero sono discusse in lunghi convegni e questo breve spazio rende difficile una sintesi completa. La malattia è un evento molto stressante che mette in grossa difficoltà l’individuo. Il paziente di fronte ad una malattia, soprattutto se improvvisa, deve affrontare non solo il dolore fisico, ma anche la perdita di autonomia (a partire dalla necessità di delegare ad altri la gestione del proprio corpo), il disorientamento derivante dal trovarsi (o perdersi) in un luogo in cui si faticano a comprendere le regole e persino il linguaggio: si viene spogliati di tutto e nulla appare familiare. Le ore scorrono tutte uguali e in alcuni casi si può perdere la chiara distinzione tra il giorno e la notte. Il nuovo ricovero, ma anche il ricovero ripetuto, pongono molti problemi di tipo gestionale e psicologico sia nella fase dell’ accoglimento, che in quella della cura, della prevenzione delle complicanze, fino alla dimissione. L’ospedale riesce a trattare con successo moltissimi anziani. La degenza ospedaliera è in genere anche in geriatria breve. La gran parte di questi pazienti rimane contenta per il trattamento complessivamente ricevuto e sorvola sui possibili disagi affrontati. Tuttavia la dimensione della sofferenza psicologica del malato e dei familiari deve essere tenuta quotidianamente in considerazione dall’intera équipe medica.
Il ricovero ingenera aspettative e paure: le prime rappresentate dal bisogno di liberarsi dal dolore e dal desiderio di essere accettati (a livello fisico e mentale); le seconde rappresentate dalla paura del dolore e della possibilità di un errore da parte dei medici, nonché dal timore di essere criticati o di essere abbandonati.
Ogni fase richiederebbe (parlo al condizionale) tempi e attenzioni specifici che però spesso, a causa della numerosità dei pazienti e delle richieste, non possono essere rispettati, nonostante le buone intenzioni degli operatori. Purtroppo, non è sempre possibile fare bene tutto e a tutti, specialmente quando bisogna agire "di fretta". Cionondimeno, deve esserci l'impegno da parte degli operatori ad accogliere nel modo dovuto il paziente, particolarmente in reparti come la geriatria (o la pediatria) nei quali sono presenti non solo i pazienti ma anche familiari, le badanti, ciascuno con il proprio carico di paura, ansia, emotività, finanche il pensiero della morte.
Non esiste una modo standard con cui il paziente percepisce gli eventi connessi all’ospedalizzazione; ad esempio, anche le azioni degli operatori, che da quest’ultimi vengono percepite come routinarie e senza conseguenze apparenti, generano reazioni diverse o vengono percepite in maniera differente a seconda della persona. Ciascun anziano entra in ospedale con una storia di vita che comprende la sua famiglia, sia essa presente accanto a lui oppure molto distante: con essa la struttura si confronta fin dal primo incontro volto al ricovero e con essa deve diventare capace di dialogare Molto si discute in ospedale sulla necessità di passare da una centralità della malattia ad una centralità del paziente. Per capire l'importanza del concetto, riporto l'esempio di una nipote che parla della nonna "ricoverata per oltre un mese in una camera sporca e con spifferi".
Alla richiesta avanzata ai medici della donna di risolvere queste situazioni, una dottoressa ha risposto che lei era pagata per fare terapia e non per fare coccole o dare carezze ai pazienti, dimostrando in maniera disarmante a quali assurdità possa condurre il porre al centro dell'operato del medico la malattia anziché il paziente.
Sul concetto di centralità del paziente, invece, si fonda la cosiddetta "cultura geriatrica", la quale, in caso di ricovero di un paziente anziano, deve essere presente in tutte le fasi dell'ospedalizzazione e deve essere condivisa ed applicata indistintamente non solo dai medici ma anche da qualsiasi altro operatore delle corsie ospedaliere. Perchè è un dato di fatto che gli anziani sono sempre meno disponibili ad essere trattati in modo marginale solo a causa della loro età.
Raccomando a ciascun componente dell’èquipe, fin dal loro arrivo, di comprendere e non giudicare le reazioni del paziente. L’operatore deve cercare di capire il significato sotteso e soprattutto accettare che in quel momento, in quelle condizioni, sia l’unica risposta trovata dal paziente per far fronte all’angoscia e all’ansia.
I familiari sono talora spaventati perché durante il ricovero sono costretti ad una permanenza al capezzale del congiunto per molto tempo, per assisterlo e sorvegliarlo, oppure a cercare del personale di assistenza privata, soprattutto per le ore notturne e nel caso in cui il malato presenti disturbi del comportamento o agitazione psicomotoria. Pur comprendendo la difficoltà dei familiari, non si deve dimenticare che questa per il paziente è un risorsa necessaria ed è una parte integrante del processo di cura. E non avrebbe senso, in questo caso, fare confronti con altri pazienti che magari non necessitano dello stesso tipo di assistenza, perché ciascun paziente deve essere curato considerando le sue specifiche problematiche. In questo senso l’unico modo per curare tutti allo stesso modo è quello di curare ciascuno "individualmente".
Ho chiesto a una signora, che mi narrava di un suo accidentato percorso fra vari ospedali in che cosa si differenziava l’accettazione dall’accoglienza: “La differenza più evidente è il sorriso!”.
I consigli che posso dare a tutti indistintamente è che l’accoglienza sia cordiale, ospitale, poiché accogliere vuol dire approvare, accettare, dare ospitalità, includere. Il suo contrario è, appunto, allontanare, respingere, rifiutare, escludere. L’accoglienza è una delle funzioni degli operatori sanitari, un’attività necessaria per costruire un rapporto tra persona assistita e persona che assiste. L’accoglienza comporta pertanto una reciprocità stabilendo un rapporto bidirezionale. Si chiedono informazioni e si danno informazioni. Questa fiducia dei familiari rimane un cardine fondamentale ed indispensabile. Un valido rapporto tra operatore e paziente, perciò, si basa prima di tutto sulla fiducia e sulla convinzione che l’operatore sia capace di fornire aiuto e assistenza in caso di necessità. Gli elementi che maggiormente concorrono a fondare la fiducia sono una buona comunicazione e, in particolare, la disponibilità all’ascolto, unitamente alla coerenza nelle proprie azioni nonché tra le parole e le azioni (ad esempio nel rispetto degli orari e delle indicazioni date, nelle informazioni, ecc.). La malattia può mettere in crisi la fiducia nei confronti dell'operatore, ma quest'ultimo ha il dovere di riconquistare sempre la fiducia da parte del paziente con la propria competenza, con la coerenza e l’empatia, ovvero la capacità di percepire i sentimenti e le emozioni dell'altro rispettando la sua identità.
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