A Santa Marta con Francesco

somm.1. “Come un parroco di periferia, Papa Francesco si presenta con paramenti poveri, senza seguito: celebra la Messa compreso e concentrato, con una voce flebile, ma ferma…”

somm2: “La sacralità di una figura un tempo inavvicinabile, quasi sospesa tra cielo e terra, si trasforma nella vicinanza accogliente di un padre che non giudica, ma che capisce nel profondo, avvicinandosi in punta di piedi al cuore di ciascuno”

Ai primi di giugno mi sarei dovuto recare a Roma. Perché allora non cogliere l’occasione per poter partecipare alla Messa che Papa Francesco celebra ogni mattina alle sette presso la residenza Santa Marta in cui abita? Un bel sogno, mi ero detto. Un sogno che si è realizzato.

Scrissi una mail al nostro arcivescovo Bressan per manifestargli questo mio desiderio. La sua risposta, cortese e immediata, era stata chiara: lui faceva il possibile, ma difficilmente la mia richiesta sarebbe stata esaudita. La chiesetta di Santa Marta contiene circa una settantina di posti di cui alcuni riservati a sacerdoti e vescovi, 25 a fedeli della diocesi di Roma e i restanti a chi si fosse prenotato per tempo. Inutile sottolineare che la lista di attesa è lunghissima. Io però volevo qualcosa di più, in quanto avevo pure fornito solamente due date possibili: insomma avevo fin troppe esigenze.

Due settimane dopo, dalla segreteria del vescovo, arrivava la buona notizia, per me completamente inaspettata: insieme con un accompagnatore mi potevo presentare alle ore 6.45 di venerdì 6 giugno presso la porta del Sant’Uffizio che conduce in Vaticano. Non ci credevo, anzi non ci ho mai creduto finchè non ho varcato quella soglia.

Il giorno arriva. E comincia alle 4.30. Occorre prepararsi per tempo. Roma all’alba è un’altra città. Ancora più bella. Quasi silenziosa, completamente senza traffico. La luce soffusa colora di un rosa pallido palazzi, campanili, torri, la cupola di San Pietro. L’aria frizzante scende dal cielo terso, accarezza i pini e a tutti concede una piacevole sveglia. Si parte. In automobile costeggio le mura leonine, oltrepasso il Tevere per poi riprendere subito il ponte che conduce a Via della Conciliazione. Avanti fino al Colonnato del Bernini e finalmente, alle ore 6.00 precise, sono davanti al cancello. Piano piano, a piedi, arriva gente: lavoratori, una troupe della Rai, funzionari del Vaticano, persone in attesa come noi. Mezz’ora dopo si può entrare. In un attimo siamo davanti a Santa Marta.

È interessante osservare la scena davanti alla porta di ingresso, sorvegliata da due guardie svizzere e da un numero imprecisato di agenti della sicurezza in borghese: un gruppo di giornalisti di Avvenire attende in disparte, varie coppie avanti con gli anni scalpitano, incessante è l’andirivieni di suore, monsignori, di sacerdoti armeni inconfondibili per barba e foggia…

All’ora stabilita, secondo una puntualità davvero svizzera, si entra nella residenza, un albergo tirato a lucido ma semplice e sobrio, secondo i desideri del suo illustre inquilino. Il gruppo dei partecipanti entra lentamente nella chiesetta. Bianco e giallo i colori dominanti , forme triangolari sono riprese nel pavimento, nel soffitto e nell’abside. Attendiamo in silenzio. Come un parroco di periferia, Papa Francesco si presenta con paramenti poveri, senza seguito: celebra la Messa compreso e concentrato, con una voce flebile, ma ferma. Come si vede in televisione, Francesco si siede stanco, ma probabilmente è un modo di vivere con maggiore attenzione la liturgia. Sembra rianimarsi al momento dell’omelia.

Il vangelo del giorno era tratto dall’ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni (21,15-19). Siamo sulle rive del lago di Galilea, dopo la pesca miracolosa. Dopo aver mangiato Gesù risorto e Pietro si scambiano alcune parole, un dialogo tra i più intensi di tutta la Bibbia. Papa Francesco evidenzia quest’atmosfera di pace e di serenità. Le domande di Gesù tuttavia fanno rattristare Pietro: per tre volte il Maestro E gli domanda se lo ama. Per tre volte la risposta è affermativa, per tre volte Gesù dice al discepolo di pascere le sue pecorelle e poi di seguirlo fino alla fine. È un’investitura, una missione.

Il Papa comincia la sua riflessione, piana penetrante come il suo sguardo. Si rivolge direttamente ai sacerdoti e ai vescovi presenti, ma le sue parole riguardano tutti i cristiani. Nel dialogo sulla riva emergono quattro aspetti. Il primo è una domanda: che rapporto abbiamo con Gesù? Lo amiamo come la prima volta, come il primo amore della giovinezza? Dobbiamo ritornare alla nostra Galilea, là dove è iniziato tutto. Francesco poi ricorda che i sacerdoti devono essere pastori, non filosofi o teologi. Quello viene dopo! Questa missione sarà poi segnata da sofferenza: non bisogna pretendere sempre l’efficienza, ma la capacità di accettare il limite. Alla fine però si ritorna al punto fondamentale. Gesù chiama a seguirlo. Torniamo allora alla prima chiamata! Così conclude Francesco.

Verrebbe da applaudire, invece siamo invitati da un silenzio austero e profondo come la cerimonia, come lo stile liturgico ed esistenziale del pontefice. Nello stesso clima seguono l’offertorio, la consacrazione, l’eucaristia, i riti conclusivi. Il Papa rientra nella piccola sagrestia da cui esce, qualche attimo dopo, per sedersi tra i banchi in fondo alla chiesa, in preghiera, in silenzio, come un umile fedele. Osservarlo fa davvero impressione.

Alcuni minuti poi Francesco esce e aspetta nella sala dell’ingresso di salutare uno a uno i suoi ospiti, come un premuroso padrone di casa. L’emozione cresce. Un saluto affettuoso  e partecipe è rivolto anche a me, insieme con una paterna e ripetuta benedizione. Francesco mi sembra di averlo avuto da sempre come parroco e compagno di viaggio. La sacralità di una figura un tempo inavvicinabile, quasi sospesa tra cielo e terra, si trasforma nella vicinanza accogliente di un padre che non giudica, ma che capisce nel profondo, avvicinandosi in punta di piedi al cuore di ciascuno. Tenerezza, misericordia, gioia: queste le parole della predicazione del vescovo di Roma. Le stesse parole si leggevano nel suo volto. Un volto che conosce la sofferenza, ma che la supera con una forza spirituale percepibile da chiunque.

Il saluto dura una manciata di secondi, un tempo sufficiente per un incontro indimenticabile: quando l’attimo è favorevole, come dice San Paolo, esso riempie la vita.

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