“There is no second” è il motto del più importante trofeo nello sport della vela, l’America’s Cup. Già, “il secondo non esiste”, vale come esaltazione o condanna di tutti gli sportivi: il primo arrivato si ricorda per sempre, mentre per gli altri non resta che l’oblio. La gioia è per pochi, a chi sta dietro tocca l’amara lezione dello sport.
Ogni quattro anni le Olimpiadi però ci insegnano a guardare da un’altra prospettiva. Non c’è solo chi vince, ci sono il secondo e il terzo, ma anche il quinto, il decimo, il sessantesimo. E tutti gli atleti qualificati – così anche quest’anno a Tokyo – cominciano a vincere dalla sfilata d’apertura, chi porta la bandiera e gli altri dietro a fare festa. Perché l’importante, prima di tutto, è esserci: partecipare.
Non a caso il detto decoubertiano resiste da oltre un secolo. Geniale fu l’inventore delle Olimpiadi moderne, riassumendo in poche parole il significato di un evento mondiale per pochi eletti, ma in generale di tutto lo sport: ok, vincere è bellissimo e chi accetta di giocare deve sempre provarci. Prima ancora però bisogna saper rispondere alla chiamata, farsi trovare pronti al posto giusto nel momento giusto, perché i treni, spesso, passano una volta sola. Sognando di volare, cadranno in tanti, perché sul podio – non lo dimentichiamo – c’è posto solo per tre. Eppure il richiamo che nasce da quelle medaglie è motore che muove tutto. Oro, argento, bronzo: che importa quanto “pesa” il metallo… prendano appunti Kane e compagni inglesi, quell’ onorificenza è da tenere al collo, bene in mostra, da mordicchiare, da coccolare. È un onore.
Solo il pensiero di quella decorazione spinge a superarsi, a dare tutto per arrivare davanti. Così si diventa “campioni di sé stessi”, come ci racconta il cestista Luca Lechthaler nella sincera intervista di fine carriera (vedi pag.29). Così si onora la competizione. E così nascono le Imprese, che hanno sempre la “I” maiuscola. Già scritte o totalmente inaspettate? In una disciplina eterna come la maratona o nell’ultima arrivata come l’arrampicata sportiva? Poco importa. Consacrano per sempre i loro artefici nell’Olimpo dello Sport.
Chi ci rimane per anni, inamovibili conferme, chi prova e riprova a entrarci senza riuscirci. Sogni che diventano ossessioni, un peso talvolta insostenibile. Ecco perché mai come durante i Giochi Olimpici gli atleti si mostrano in tutta la loro magnificenza, ma anche in tutta la loro fragilità: sono donne e uomini prima che grandi sportive e sportivi che cullano da una vita un sogno pronto a colorarsi ma anche a sbiadire. Magari per sempre.
Capita di vederli piangere come bambini al termine della prova vincente, dell’esercizio perfetto. Ma anche dopo una sconfitta, ammettendo che “sì, questa volta qualcuno è stato migliore di me”. Nervi che si sciolgono dopo un anno e passa durissimo. Anche per loro, gli atleti, che appaiono sempre così belli e inarrivabili.
A noi che osserviamo ammirati o che dobbiamo commentare questa Tokyo 2020 arrivata con un anno di ritardo, il felice compito di scovare cosa sta “dietro” alla prestazione vincente. Scopriamo che tutto ha spesso origine dalla semplicità, da una quotidianità che accomuna milioni e milioni di giovani. Parliamo di talenti forgiati da allenamenti, competenze e tecnologie sempre più avanzate, certo, ma alla base non mancano mai il campetto, i sassi, la polvere, la piscina di periferia, una strada con le buche, le scarpe da quattro soldi. E un nonno da cui ereditano la passione, una mamma che si fa chilometri in macchina per accompagnarli ad allenamento.
È qui che cominciano i sogni dei bambini. E un giorno, come per magia, per qualcuno diventeranno a cinque cerchi. Diventeranno la medaglia che brilla più di tutte o, più probabile, un decimo posto o un sessantesimo. Comunque, una vittoria.
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