Il caldo estivo è esploso improvviso, arrivano i primi turisti, gli orti sono un brulicare di uomini e donne intenti a strappare erbacce e bagnare piantine. Al bar, di fronte alla chiesa, i pochi avventori accaldati fanno un cenno di saluto. Da uno dei tavolini mi raggiunge una domanda che rimbalza tra le canisèle del paese: Èlo vera che il parroco va via? (È vero che il parroco va via?). E ancora: “Viénlo chi al so posto: élo vècio o zoven?” (Chi viene al suo posto: è vecchio o giovane?). A queste domande si aggiungono altri commenti tipici della tradizione popolare paesana, con leggere sfumature linguistiche colorite, legate a storie di sacerdoti passati ed impressi nella memoria dei presenti. Questo è ciò che interessa a quella parte di popolazione che abita le nostre valli, la stragrande maggioranza che solitamente non passa le porte della chiesa.
Prima di puntare il dito contro qualcuno sarebbe opportuno chiederci: come comunità cristiana, che immagine abbiamo distribuito intorno a noi, soprattutto negli ultimi decenni, dei nostri sacerdoti? Credo possiamo riassumere in tre parole, frutto dell’immaginario collettivo. Il prete deve essere: giovane, simpatico e capace di coinvolgere i giovani. Invece la realtà ci fa poi ritrovare di fronte a uomini di Dio, il più delle volte attempati, indubbiamente con i loro doni, ma anche con limiti caratteriali, qualche debolezza e fragilità. In pochi minuti tutte le aspettative crollano e iniziano le prime (ma non ultime) chiacchiere intorno ai difetti del prete appena arrivato in paese. E anche all’incapacità del vescovo di tirarne fuori uno migliore.
Il tutto condito da un senso di rassegnazione, vedendo nel cambio del parroco l’aggiunta (già di per sé consistente!) di nuove parrocchie da seguire. Infine, anche la sentenza: “In Vaticano è pieno di preti, perché il Papa non ce ne manda qualcuno qua?”. Capisci che, dopo essersi appellati alla misericordia della Santa Sede, non rimangono molti margini di ragionamento. Che si può fare? Accogliere questo tempo, così com’è, ma nella preghiera umile. Ci ha detto Gesù: “Chiedete!”. È lui che si è impegnato, anche a nome del Padre e dello Spirito Santo, a “darci”. Lui ci ha messo la faccia, promettendoci che qualcosa, o qualcuno, ci sarà dato, siamo forse noi che abbiamo smesso di chiedere? È importante pregare, affinché il Signore chiami nuovi operai nella sua vigna.
Ma è altrettanto doveroso accogliere gli operai, magari vecchi e malandati, che sono ancora (grazie a Dio!) al lavoro nel campo del Regno. Accoglierli come sono e non come vorremmo che fossero, secondo l’emotività del momento è il primo segno concreto di gratitudine verso Colui che, attraverso i suoi sacerdoti, può essere ancora oggi realmente presente tra noi nella Parola, nei Sacramenti e nella carità. Accogliere il prete con il suo modo di essere sacerdote sull’altare, come nella piazza del paese. Non ha bisogno di persone che alimentino la sua frustrazione di “uomo indegno” al ministero a cui è stato chiamato, ma che lo sostengano e, caritatevolmente, lo correggano quando ce ne fosse la necessità evangelica di farlo.
Ricordiamoci sempre che il Signore ha chiamato quel preciso uomo, con la sua storia, e nessuno può, una volta che la Chiesa ne ha certificato la reale vocazione sacerdotale con l’ordinazione, dire che quello non è un prete. Non sarà un brav’uomo (e questo è tutto da dimostrare), ma è, e rimane, sempre un sacerdote. La scelta fatta da Gesù in merito ai suoi primi discepoli, umanamente parlando, per come si sono sviluppate le cose cammin facendo, personalmente la trovo come minimo opinabile. Però credo fermamente che lo stesso Signore, oggi, non abbia cambiato le sue motivazioni di fondo con cui sceglie un uomo dal popolo di Dio per il sacerdozio. La questione è un’altra: Dio guarda il cuore e noi cosa guardiamo?
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