Che papa Francesco andasse nel centro di Roma a visitare la chiesa anglicana, dedicata a Tutti i Santi, non ha guadagnato molte prime pagine: forse perché la Chiesa d’Inghilterra non vanta grandi numeri in Italia, forse perché in questo 2017 gran parte delle attenzioni in campo ecumenico si concentrano sul quinto centenario dalla Riforma di Lutero, a cui gli anglicani sono legati sì ma in modo diverso dalle chiese protestanti. O forse semplicemente perché almeno certa stampa si sta quasi abituando ai gesti di papa Francesco, che non facendo più chissà che clamore, non possono essere trasformati in uno scoop. Cosa che in fondo non è nemmeno così negativa: volesse il cielo che l’incontro fraterno tra cristiani di Chiese diverse e tra gli esponenti di varie religioni rientrasse nell’ordinaria amministrazione!
Ci ha pensato però il papa stesso a farci la sorpresa, insieme all’arcivescovo Welby, Primate d’Inghilterra, ossia l’autorità ecclesiastica più alta della Chiesa anglicana: i quali andranno prossimamente in Sud Sudan, una nazione che definire tra le più povere al mondo è un eufemismo.
Una notizia inaspettata, sulla quale varrà la pena tornare con una riflessione pacata, ma che fin da subito è in grado di liberare alcune reazioni a caldo. Innanzitutto il fatto che a decidere questo viaggio siano stati l’arcivescovo Welby e papa Francesco insieme. Non è cosa scontata: siamo tutti figli del “chi fa da sé, fa per tre”, quando invece l’ecumenismo e ancor di più la natura di ogni comunità cristiana propone sempre una logica di comunione, di incontro, di cose dette e fatte insieme. Tornano subito alla mente altri gesti simili: come la giornata di un anno fa a Lesbo, segno concreto di attenzione ai profughi da parte del Papa, del Patriarca Bartolomeo e dell’arcivescovo Hieronymos di Atene; ma anche i “Corridoi umanitari” per un trasferimento sicuro di profughi di guerra, progetto avviato insieme dalla Chiesa cattolica e dalla Chiesa valdese, ripreso da Caritas italiana e che sta per essere lanciato anche dalle Chiese evangeliche in Germania. Perché l’attenzione al prossimo, chiunque egli sia, è patrimonio e impegno comune a tutti i discepoli di Cristo – ed è la seconda considerazione che desidero condividere: sull’amore verso il prossimo i cristiani non hanno mai conosciuto divisioni. Il che non vuol dire che ci siano sempre riusciti, ma mette in luce la consapevolezza che il comandamento dell’amore risuona identico in tutte le Chiese cristiane, e quindi le unisce già tutte in una comunione nel servizio, che tanto ha da insegnare ad ogni Chiesa e forse anche al mondo intero. L’unità tra i cristiani, insomma, è possibile; anzi, almeno su certi aspetti è già in atto. Una terza considerazione a caldo, infine, mi viene suggerita dalla meta di questo viaggio: il Sud Sudan. Nazione molto giovane, nazione estremamente povera, nazione che però può rivelarsi anche simbolica. Mi pare cioè che la decisione di visitare insieme proprio questo Paese del continente nero contribuisca ad affermare quella “differenza cristiana” di cui la nostra società ha una gran sete: con questo annuncio, cioè, papa Francesco e l’arcivescovo Welby diventano i portavoce di chi non ci sta ad escludere, a chiudere porte e confini di fronte al povero, al profugo, o più in generale ad ogni “altro” che – chissà per quale ragione – sembra condannato sempre a far paura e a suscitare sospetto.
La “differenza cristiana” dimostra con i fatti che si può ragionare anche in altri termini: in termini di comunione, di accoglienza, di fraternità.
Il lettore un po’ più informato sulla storia del movimento ecumenico ricorderà come è nata la Conferenza di Edimburgo, che nel 1910 ha dato l’avvio ufficiale al cammino di riconciliazione tra i cristiani: missionari anglicani e protestanti, tutti al lavoro in Africa, i quali hanno cominciato a ragionare sull’utilità di annunciare insieme quel Vangelo che non può certo dividere i credenti. Allora i cattolici non si sentivano coinvolti da questo movimento; oggi sono in prima linea, come tutte le Chiese cristiane del resto, o come tutti coloro che hanno capito che non c’è alternativa. E mi pare molto bello che sia ancora l’Africa, in qualche modo, a ricordarcelo. A ricordarci che “antiecumenismo equivale ad ignoranza”, come ha recentemente affermato il Patriarca di Mosca Kirill: ignoranza dei tempi, ignoranza del processo della storia. Ecco, mi pare che Welby e Francesco, in fondo, ci dicano la stessa cosa.
Don Cristiano Bettega
direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei
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