Nasce per rispondere a un bisogno di fare i conti con la storia e di comprenderla la collana di Laterza “La Storia alla prova dei fatti”. Dopo l’“Antifascismo non serve più a niente” di Carlo Greppi, “E allora le foibe?” di Eric Gobetti e “Anche i partigiani però…” di Chiara Colombini, la serie si è ampliata con la pubblicazione, il 1° aprile, di “Prima gli italiani! (sì, ma quali?)”, dello storico levicense Francesco Filippi, autore di “Mussolini ha fatto anche cose buone” (2019) e “Ma perché siamo ancora fascisti?” (2020). Incontriamo l’autore alla Piccola Libreria di Levico Terme martedì 6 aprile, mentre firma le copie del saggio, che, partendo dall’affermazione “Prima gli italiani!”, cerca di rispondere alla domanda “Chi sono questi italiani?”.
Filippi, nel 2018 il militante di estrema destra Luca Traini spara ad alcuni passanti di colore e grida “Viva l’Italia”. Qual è il nesso tra queste due azioni?
Traini a un certo punto imbraccia un fucile e spara ad alcune persone di un colore diverso dal suo. Parte quindi dalla presunzione che queste persone non abbiano il diritto di stare nella sua stessa città, Macerata. Per fortuna il tentativo di mattanza fallisce, altrimenti sarebbe stata una strage in piena regola. Subito dopo aver sparato, Traini corre davanti al monumento dei caduti della Grande Guerra e grida “Viva l’Italia”. Si tratta dell’ultimo tentativo, in ordine di tempo, di dare un senso a una costruzione di identità italiana che non è stata molto efficace: i due “regali” del nazionalismo, in questo Paese, sono state due Guerre mondiali, e su questo dovremmo riflettere. Traini è solo l’ultimo di una lunga serie di personaggi che, afferrando la bandiera, la trascinano, e con essa trascinano l’identità italiana nella polvere e nella vergogna della chiusura escludente nei confronti dell’altro.
Da dove nasce il bisogno di escludere qualcun altro per affermare la propria identità?
Riconoscersi e riconoscere se stessi negli altri è connaturato nell’uomo, perché siamo animali sociali ma anche individui. Esistono due modi di costruire un’identità: uno facile e uno difficile. Per il primo, è necessario avere paura di qualcun altro e costruire la propria immagine in sottrazione rispetto a quella degli altri. È ciò che accade nei nazionalismi di stampo novecentesco, che per rafforzarsi utilizzano dei meccanismi emozionali. Avere paura di qualcuno distrae per un momento, impedisce di porre domande su se stessi. C’è invece una capacità di costruire un’identità più complessa e strutturata. In questo caso si parte da un sistema di valori: per quanto mi riguarda, ad esempio, sono molto felice di far parte di una comunità che si dice democratica, libera e rispettosa. Sarei molto più felice, però, di respirare e toccare quei valori tutti i giorni.
Che ruolo hanno le donne nella costruzione dell’identità italiana?
Sono assenti. Come nasce l’idea della nazione? Per parafrasare Hobsbawm, non sono le nazioni che creano i nazionalisti, ma i nazionalisti che creano le nazioni. La costruzione ex post, venuta dopo l’unità, è fatta da chi ha il potere, quindi da maschi adulti bianchi. I quali si riferiscono, ovviamente, ad altri maschi adulti bianchi. In tutto ciò la donna scompare come soggetto e riaffiora come oggetto. Quando la figura femminile diventa importante nel discorso nazionale? Quando i maschi italiani devono difendere i loro possedimenti: la loro terra, la loro casa… E le loro donne. Quanto pesa questo discorso oggi? È ancora rilevantissimo. Ma è un processo che, per la prima volta da quando si parla di unità, vedo intaccato. È in atto, ad esempio, un mutamento all’interno di quella che è un’arma del nazionalismo: la lingua, uno strumento che porta con sé conoscenza e che fa cambiare idea alle persone. Non ho mai visto nessuno scannarsi per un “a me mi”, anche se quando ero bambino era un errore grammaticale. Perché, invece, parlare di sindaca e di assessora deve essere letto come una presa di posizione politica? Che cosa ci racconta, questo, del nostro Paese?
Quanto ha influito invece il fatto che il Risorgimento, come spiega, sia stato “mitizzato” prima ancora di diventare storia?
Nel 1861, la patria degli italiani nasce a seguito di uno scontro tra potentati ideologici, ognuno dei quali è portatore di un’idea diversa di Italia. Chi vince? Chi ha una pistola in mano, cioè l’apparato militare e industriale del Piemonte. Non ci si chiede se il modello borbonico-napoletano o quello lombardo-veneto possano andar bene. Si esporta semplicemente un modello vincente. È un’affermazione di carattere quasi capitalistico, questa: il prodotto che ha dimostrato di tenere di più sul mercato diventa l’unico. Le altre narrazioni scompaiono o vengono piegate. Garibaldi, ad esempio, tra l’unità e la democrazia sceglie l’unità, cedendo la sovranità a Vittorio Emanuele II. E lo fa con lungimiranza, dal mio punto di vista. Così, però, Garibaldi entra nella trinità “Garibaldi – Vittorio Emanuele II – Cavour” come un nazionalista convinto. Un nazionalismo in cui Garibaldi non aveva mai creduto. Chi prende in consegna la sua immagine per farne un medaglione da attaccare sull’altare della patria fa di lui una persona che ha combattuto senza sbavature per l’unità del proprio Paese. In realtà il nazionalismo garibaldino predicava di “dare potere al popolo”. A noi, invece, Garibaldi viene raccontato come il braccio armato della monarchia sabauda, che a un certo punto dice: “C’ha ragione il re”. Un re che non fonda una nuova dinastia: il primo re d’Italia è già il secondo, perché Vittorio Emanuele II sceglie di mantenere la numerazione della dinastia sabauda. Quasi a dimostrare che per lui non c’è stata un’unificazione tra pari ma un allargamento per conquista del proprio regno.
L’Italia, però, si riunisce per le partite di calcio. Come mai questo sport diventa uno strumento d’unione?
Il calcio si ammanta della bandiera in maniera pura solo nel momento in cui è vincente. Diventa “nazionalpopolare” – una battuta di quel grande conoscitore degli italiani che è Pippo Baudo – con il successo ottenuto dalla nazionale italiana nel 1982. È la storia disneyana di successo, perché quella che vince non è un’Italia amata. Perché gli italiani si ricostituiscono attorno al pallone? Prima di tutto perché quello che creano gli sport, e il calcio in particolare, è un sentimento di aggregazione prepolitico, emozionale. Le grandi narrative identitarie, dopo la Seconda guerra mondiale, sono subnazionali, per via della divisione tra bianchi e rossi, tra democristiani e comunisti. I sentimenti di carattere prepolitico che il calcio riesce a suscitare, quindi, rappresentano l’unico modo per unire la nazione. Lo ha capito l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, un uomo che ha compreso di dover essere un simbolo. Pertini non è solo il presidente che è andato a prendere gli italiani e ha portato “a casa” la coppa del mondo nel 1982. È anche il presidente che, in Irpinia, si è arrabbiato e ha urlato per lo scempio e la vergogna di un Paese che non riusciva ad aiutare i propri cittadini. Di questo gli italiani avevano un enorme bisogno.
Ora, il problema dell’“identità italiana” è posto soprattutto dagli italiani che hanno genitori originari di altri Paesi…
Sì, perché si scontrano con leggi che non sono necessariamente lo specchio del Paese. L’ennesima dimostrazione che determinate idee e regole novecentesche non possono più descrivere l’attualità. Un esempio su tutti viene dalla mia biografia: mentre i miei nonni, di Levico Terme, sono andati in viaggio di nozze a Trento, io sono andato negli Stati Uniti. Quanto è cambiata la dimensione del mondo che abbiamo di fronte? L’idea di nazione ha fallito già con i miei nonni, non era già in grado di spiegare il loro mondo. Come può spiegare il nostro? Il nazionalismo non ha funzionato: abbiamo bisogno di nuovi racconti che ci comprendano tutti. A partire dal “Prima le persone”, non “Prima gli italiani”.
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