Per questa terza tappa del percorso quaresimale, dedicata al silenzio e all’esperienza della spoliazione, speravamo di poter recensire l’esordio alla regia di Robin Wright (l’indimenticabile Jenny di Forrest Gump) che nel film Land racconta un percorso femminile di perdita e rigenerazione a seguito di un lutto in una zona disabitata e selvaggia degli States. Presentato a fine gennaio al Sundance Film Festival, il film, che è anche interpretato da Robin Wright, avrebbe dovuto arrivare a metà febbraio sulle piattaforme digitali italiane, ma non se ne trova ancora traccia.
Nell’attesa, proponiamo un film del 2014 che s’intona tematicamente e ha il valore aggiunto di essere tratto da una storia vera. Si tratta di Wild prodotto e interpretato da Reese Witherspoon, dal libro di memorie di Cheryl Strayed, Wild: From Lost to Found on the Pacific Crest Trail (Wild-Una storia selvaggia di avventura e rinascita, Piemme 2015).
Come annuncia il titolo del libro, è la storia di perdita e di rinascita di Cheryl Strayed, neanche trentenne, attraverso il cammino in solitaria sul sentiero che dal deserto al confine col Messico arriva fino al Canada, lungo la catena montuosa che corre parallela al Pacifico: 4.000 e più chilometri, di cui la protagonista, senza alcuna preparazione e con un carico incredibile sulle spalle, percorrerà quasi la metà. Lo zaino impossibile, che la massacra e rischia di travolgerla lungo la strada, è reale e è dovuto a sprovvedutezza, ma è anche metafora del carico esistenziale di dolore e ferite che la giovane donna ha accumulato nella prima parte della vita. Non a caso lei lo chiama “Mostro”. Quel mostro l’ha condotta sul ciglio dell’autodistruzione, tra droga e sesso, nonostante un marito che la ama, un amore per la letteratura che la nutre e l’amore della madre.
È proprio la morte precoce di questa donna sfortunata, con cui la figlia aveva un rapporto irrisolto, a scatenare la discesa agli inferi di Cheryl, ma è anche il suo amore ad accompagnarla lungo la via della rinascita. “Mia madre diceva sempre una cosa che mi faceva innervosire: nella vita ci sono un’alba e un tramonto ogni giorno, e tu puoi scegliere di essere presente; puoi metterti sulla strada della bellezza” è questo che alla fine sceglie Cheryl. Per caso, o forse no. Ma prima di poter vedere e godere i panorami mozzafiato che il Pacific Crest Trail attraversa, la donna dovrà guardare l’ombra che si porta dentro, e reggere il dolore che costa affrontarla. Dovrà fare una buona parte del percorso con scarponi troppo piccoli che le massacrano i piedi e le unghie, mangiare avena cruda, bere acqua di palude e altro ancora, prima che un buon samaritano la aiuti a eliminare quanto di inutile e stolto si porta sulle spalle, e prima di trovare scarponi (il simbolo ritorna) adatti al suo piede. Tutto questo dentro una solitudine e un silenzio che noi, separati ormai da secoli dall’esperienza della “wilderness”, non riusciamo nemmeno a immaginare.
È un percorso di purificazione e di reintegrazione laico, dove la Natura tiene il posto dello Spirito che spinge nel deserto tra le bestie feroci e i propri demoni, e al tempo stesso permette di rinascere dopo aver raggiunto il nucleo più autentico e non corrotto di sé. L’anima della madre accompagna; le parole di autori del Nuovo mondo segnano le tappe di una vita riconquistata nella sua natura “misteriosa, irripetibile e sacra”.
“Ci sono voluti 4 anni 7 mesi e 3 giorni – conclude Cheryl – per essere la donna che mia madre voleva… Non sapevo nemmeno dove andavo quando sono arrivata là, al Ponte degli Dei. Grazie. Sarò eternamente grata per tutto ciò che quel viaggio mi ha insegnato e per tutto ciò che ancora non potevo sapere”.
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