La “Canta dei Mesi” è senza dubbio la manifestazione antropologica più antica che il paese di Cembra possa vantare. Retaggio delle antichissime ambarvalia (le feste latine di primavera, n.d.r.), la “Canta” vuole essere nel contempo omaggio e devozione. Preghiera e ringraziamento per ciò che Madre Natura offre nel susseguirsi dei mesi e delle stagioni.
Ci presenta però anche lo spaccato di una società arcaica costretta a vivere in modo autarchico. Attraverso le strofe della “Canta” si sviluppa un mondo rurale che ci appare antico, lontanissimo nel tempo seppure non molto dissimile da quello che molti di noi hanno potuto direttamente vivere fino agli anni Sessanta.
In un mondo necessariamente autosufficiente, in presenza di comunicazioni estremamente tormentate per non dire pressoché impossibili in certi periodo dell’anno, l’uomo non poteva limitarsi a svolgere un’unica mansione. Ma, in assenza pressoché totale di commercio, doveva provvedere a tutte le necessità della famiglia. Non quindi contadino, o per lo meno, non solo contadino. Ma anche allevatore, e non solo di ovini e bovini, ma anche di bachi da seta.
A Cembra fino agli anni Cinquanta più di una famiglia era dedita alla bachicoltura e moltissimi erano i gelsi delle cui foglie i bachi si nutrivano. Col progresso poi è arrivato il nailon, e col nailon la fine della seta trentina. Ma questa attività ci viene ricordata dalle strofe di giugno che alludono alle “galete” , i bozzoli appunto.
Il contadino doveva essere anche cacciatore. E non certo per la passione di quello che oggigiorno potremmo definire ipocritamente lo “sport“ della caccia, ma per la necessità di procurarsi ulteriori alimenti ricchi delle proteine necessarie al suo sostentamento. Non si sbaglia molto nell’affermare che fino alla fine degli anni Cinquanta, moltissimi in paese avevano avuto modo di cacciare di frodo con i “lacci” o con la rete per l’uccellagione. Ed il mese di novembre, possente nel portamento con il suo tonante fucile che pochissimi potevano possedere, ci ricorda l’importanza della caccia, o meglio, della cacciagione. Ed ecco che il contadino cembrano sapeva trasformarsi, nel mese di dicembre, anche in macellaio.
Il maiale. Una bestia di cui si sfruttava tutto e per tutto l’anno. Non si usava allora l’olio e quel poco che si acquistava serviva più per alimentare i lumini di devozione innanzi ad una immancabile immagine sacra che per condire le pietanze. Allora si usava pochissimo burro, prezioso e prodotto più per gli altri che per se stessi, e molto grasso di maiale.
Utilizzato anche per lenire le sofferenze del male o gli spasimi dovuti ad una delle tante e ricorrenti malattie.
La “Canta” è, quindi, lo specchio del microcosmo sociale del paese. Con il Re ed il suo servo vengono visivamente rappresentati il potere e la dipendenza. Il despota ed il suddito. Il Regolano ed il Vicino.
Le guardie rappresentano il braccio esecutivo della legge e, troppe volte nel corso della storia, le angherie patite in suo nome.
L’Arlecchino, invece, descrive come meglio non si potrebbe, l’astuzia del popolo. Il suo sarcasmo e la sua ironia come unica difesa alle prepotenze subite.
I mesi e le stagioni rappresentano, in definitiva, la severa vita quotidiana della società di allora addolcita in ogni caso dal soccorso reciproco ben evidenziato dalla gioiosa e possente tonalità del coro. Non unica voce, quindi, non singolo individuo, ma sostegno corale, di tutti, nel piccolo ma ricchissimo microcosmo della collettività cembrana.
Ed il nostro Gruppo folkloristico ha voluto anche quest’anno ripercorrere fedelmente la tradizione culturale della originaria canta dei Mesi riproponendone pure, nella fedele rappresentazione, le sue insite ed ingenue illogicità storiche.
Lascia una recensione