Il “boom”, prima dell’inesorabile e rapido declino, tra fine settecento e la prima metà ottocento dove le stufe a olle rappresentano l’anello di congiunzione tra una necessità atavica, difendersi dal freddo, e la ricerca della bellezza. Il “fornelaro” crea, modella e decora con strumenti semplici. Mantenere la temperatura di cottura non è facile quando si usa la legna per cuocere la creta ed è per questo che la sbavatura, anziché un errore, nel tempo, viene considerata forma d’arte.
Cinque fornaci bruciano e creano nel piccolo paese noneso nel periodo di massimo splendore, migliaia le stufe realizzate, innumerevoli le bocche sfamate grazie al lavoro delle sapienti mani che si tramandano quello che oggi definiamo il know-how – l’arte, la conoscenza ma anche la passione – di padre in figlio.
Richieste arrivano da castelli e dimore nobiliari anche fuori dall’Europa; ma anche – sicuramente in forma molto più povera e semplice – di installazioni in alberghi e case “comuni” dalle quali poi, in gran numero le stufe sono smantellate durante il Secolo breve; troppo ingombranti e indissolubilmente legate al triste retaggio di un passato di privazioni, vengono smantellate e sostituite con realizzazioni più piccole, in ghisa.
“Anche se abbiamo ospitato uno dei centri di produzione più famosi della Mitteleuropa, questa è una storia ancora poco conosciuta, almeno qui da noi”, commenta Andrea Biasi, da novembre del 2016 sindaco di Sfruz e da qualche anno segretario dell’associazione culturale “Antiche Fornaci”, sorta nel 2005 proprio con l’obiettivo di riscoprire e rilanciare l’antica arte della lavorazione della ceramica e che oggi ha catalogato in un database oltre duecento stufe tutte realizzate nelle fornaci dei Cavosi, che si trovano in edifici pubblici e privati in edifici nella valli del Noce. “In Austria e Svizzera interi dipartimenti si occupano dello studio delle stufe a olle. Al Museo degli Usi e Costumi di Inssbruck – aggiunge Biasi – sono contenute più stufe di Sfruz che al castello del Buonconsiglio, che pure ne ha una rilevante collezione. A Castel Thun, ad esempio, non vi è una sola targhetta che richiama l’origine delle stufe ospitate nelle sale”, fa osservare.
Il primo a “togliere la polvere” dai pregiati manufatti fu Memmo Caporilli, giornalista romano oggi 87enne. Era il 1986 quando dava alle stampe un’opera che è corretto definire “pionieristica”. Poi, trent’anni più tardi, dopo due convegni internazionali ospitati proprio a Sfruz, la ricca pubblicazione dello stesso Biasi, nata da tre anni di ricerca e di dettagliata indagine di documenti e registri storici.
“Curiosità, dobbiamo creare curiosità”, ripete il sindaco di Sfruz, che legge in questa storia unica, la possibilità per un rilancio culturale del paese ma anche della valle. “Siamo riusciti ad aprire stanze di castelli che, a parte chi vi abita nessuno potrai mai visitare, e fotografare le stufe in esse contenute: in giugno uscirà una pubblicazione su Castel Thun, l’anno prossimo sarà la volta di Castel Valer con gli scatti di Gianni Zotta”.
Con l’obiettivo di crearvi alcuni spazi per futuri laboratori sulla lavorazione della creta, il Comune di Sfruz ha anche acquistato un vecchio edificio contenente tra l’altro due stufe a olle – una per piano – installate nel 1859. Per la semplicità dei servizi offerti ai viaggiatori i catasti dell’epoca lo definivano una “bettola”; ora, invece, potrebbe diventare un altro importante tassello per continuare a raccontare una storia che merita di essere conosciuta.
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