Otto africani sono accolti nelle ex canoniche di Cares e Villa Banale. Il parroco: “Partecipano alla nostra vita e la comunità li ha accolti con benevolenza”
Nelle Giudicarie sono giunti da poco più di un mese a Cares e Villa Banale otto profughi provenienti da Nigeria, Senegal e Gambia. Otto storie diverse ma accomunate da una vicenda di servaggio industriale in Libia dove erano approdati in un primo momento per poi scappare verso l'Italia, su quei “barconi della speranza” che uniscono i disperati dalla guerra ai disperati dalla fame.
Gli otto giovani (dai 22 ai 37 anni) sono venuti via dalle loro case – chi da 6 mesi, chi da 4 anni – in cerca di un futuro migliore, più vivibile approdando alla fine di gennaio nelle Giudicarie: le parrocchie locali hanno spalancato loro le porte obbedendo al recente appello di Papa Francesco “Aprite loro le porte come ai fratelli…”.
Incontriamo in due momenti distinti i migranti che si trovano a Cares al Bleggio nella ex canonica di Cares, Mahamadou, Demba (Gambia), Sheriffo e Bambo (Senegal), e quelli che sono ospitati nella ex canonica di Villa Banale, Akere, Collins, Frank e Hector, tutti nigeriani.
Ci accompagna Federico Uez, che li segue per conto della Caritas trentina. Ci raggiungono a Cares anche Linda e Giorgio, entusiasti dell'esperienza: “Ci siamo avvicinati a loro, conoscerli è stato bellissimo, le loro speranze, i loro sogni, i loro timori…”. Come, ad esempio, quello di non riuscire ad integrarsi o di essere respinti. O, ancora, di essere guardati con sospetto.
Akere è meccanico, Collins musicista, Mahamodou idraulico, Demba e Bambo muratori, Sheriffo falegname, come Frank e Hector. “In Libia la vita era impossibile, siamo stati costretti ad imbarcarci per salvarci. Ci manca la famiglia, il nostro paese”, racconta in un italiano scolastico Mahamodou.
Gli otto si sforzano di parlare qualche parola d'italiano; frequentano infatti giornalmente le lezioni a Dro: “Ma, purtroppo, è l'unica cosa che facciamo”, confessa Akere, che poi in inglese aggiunghe che “We want only to work”, “chiediamo solo lavoro”.
In zona si è creato un gruppo spontaneo di giovani che incontrano giornalmente i profughi, le parrocchie si sono messe a disposizione organizzando una “cena povera”, in prima fila il parroco don Gilio Pellizzari: “Sono giovani solari, sereni e ben disposti. Per questo la nostra gente li ha accolti con benevolenza. Partecipano anche alla nostra vita, come il carnevale di Larido o i filò serali”.
In questi giorni, la cosa che li ha maggiormente colpiti, è la neve a Passo Duron. Alcuni di loro hanno la passione per la musica. “Io suonerei volentieri, ma non ho la mia Khora…”, spiega Sheriffo, in patria cantore delle tradizioni e della sua tribù. A Collins mancano tanto piano e chitarra, ma anche la tromba. L'impegno per ora è di avere presto una Khora, sarà più difficile per la troba: ma chissà che, con le nostre fisarmoniche, non si possa organizzare un concerto.
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