L’ondata impetuosa della pandemia, contro la quale ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte, ha distolto l’attenzione pubblica dalle “perfide” infiltrazioni mafiose portate alla luce dieci giorni fa dalla magistratura dopo due anni di indagini. Le accuse pesantissime per l’organizzazione a delinquere cresciuta tra Calabria e val di Cembra con le mani protese sul mercato del settore estrattivo e sullo sfruttamento operaio, risultano ora aggravate anche dall’emergere di “pratiche” sottovalutate negli anni scorsi, come le subdole proroghe delle concessioni estrattive o le false dichiarazioni sulle quantità di porfido uscito dalle cave.
Queste evidenze della Procura della Repubblica e della Corte dei Conti vanno drammaticamente a confermare il legame – più volte denunciato da voci inascoltate – fra le cosche dell’’ndrangheta e alcuni nodi del tessuto amministrativo locale, ma anche l’indifferenza della comunità trentina rispetto a quest’intreccio sempre più pervasivo. La prova più scandalosa sta nel fatto che uno dei personaggi rinviati a giudizio è stato a suo tempo eletto vicesindaco nel Comune di Lona-Lases ed ha “governato” per cinque anni. E “locale”, che per noi è sempre stato un aggettivo virtuoso, ora è diventato un sostantivo mafioso: “la locale”, appunto.
Lo sconcerto manifestato dalla classe politica trentina e dagli industriali del settore appare insufficiente; si sta rivelando troppo blanda la stessa legge provinciale sul porfido voluta nel 2017 per favorire trasparenza fra i tanti filoni estrattivi.
Ora si capisce che non si tratta di isolare e sradicare un bubbone, ma di darsi una scossa per difendere il corpo sociale del Trentino da ulteriori attacchi. “Girare la testa dall’altra parte, non vedere le cose o non volerle vedere, è il presupposto perché queste cose poi accadano”, hanno scritto le ACLI trentine in una nota, invocando più vigilanza, formazione politica e controllo sociale. E il loro presidente Luca Oliver, nella coraggiosa intervista a Vita Trentina nel numero scorso, ha usato toni ultimativi: “E’ giunto il tempo di tornare alla partecipazione e all’impegno per evitare il declino, altrimenti inesorabile, dell’Autonomia e di una comunità che da sempre ha fondato i suoi principi di autogoverno sul senso di responsabilità individuale e collettiva”.
Quest’allarme per il “rischio sonnolenza” è stato più volte rilanciata dal nostro Arcivescovo, anche in termini autocritici per la nostra Chiesa. “Non possiamo continuare a ritenerci diversi dagli altri… , inattaccabili, immuni da certi fenomeni… – ha detto mons. Lauro Tisi, commentando l’indagine calabrese nell’intervista di sabato scorso su L’Adige – per decenni abbiamo raggiunto un certo benessere, le classifiche ci mettono ai primi posti, ma ci siamo adagiati, seduti su una situazione di benessere economico. E ciò ci ha fatto perdere creatività, originalità, la nostra specificità”.
Incalzato dalle domande di Domenico Sartori, il collega che per Vita Trentina aveva documentato a suo tempo forme di sfruttamento di cavatori portoghesi e cinesi, mons. Tisi ha confidato: “E’ un punto che mi ha colpito molto la riduzione in schiavitù dei lavoratori tra le cave. Dice che abbiamo dimenticato le fasce deboli della popolazione, che abbiamo un atteggiamento di pregiudizio nei confronti degli immigrati, la cui presenza è la nostra salvezza come si è visto durante il lockdown e nella raccolta delle mele. Questa dimensione di non attenzione al lavoro, ai poveri, è venuto avanti negli ultimi anni. A livello generale, abbiamo chiuso gli occhi di fronte ad una serie di realtà come quella dei migranti che non sono quelli che ci portano la via la roba o il lavoro, ma sono il nostro futuro. Così come, accanto al lavoro, le questioni ambientali, importantissime, sono ancora considerate seccature, utopie”.
Il clamore suscitato dall’inchiesta “Perfido” porfido non va tacitato e frettolosamente archiviato. Interroga l’economia visto che “ora è la finanza che va a cercare la mafia – come si è visto – mentre una volta era viceversa” e interpella anche l’ecologia integrale, per dirla con papa Francesco. Nell’enciclica “Fratelli tutti” denuncia al capitolo 26 la trasversalità degli atteggiamenti mafiosi e la loro presa sui soggetti più deboli: “La solitudine, le paure e l’insicurezza di tante persone, che si sentono abbandonate dal sistema, fanno sì che si vada creando un terreno fertile per le mafie. Queste infatti si impongono presentandosi come “protettrici” dei dimenticati, spesso mediante vari tipi di aiuto, mentre perseguono i loro interessi criminali. C’è una pedagogia tipicamente mafiosa che, con un falso spirito comunitario, crea legami di dipendenza e di subordinazione dai quali è molto difficile liberarsi”. C’è davvero da aprire gli occhi e da tenerli ben aperti, non solo a Lona-Lases.
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