Perdi coscienza, poi ti risvegli e non ricordi dove sei. Vedi uomini e donne intorno a te che indossano scafandri, mascherine, guanti. Hai paura. Si sono presi cura di te mentre eri intubata, medici, infermieri, operatori sanitari hanno lavorato senza sosta affinché potessi risvegliarti e tornare alla vita. E scopri che anche tuo marito si era ammalato, ma è guarito ed entrambi potete riabbracciare i vostri quattro figli.
Questa è una delle cinque storie raccontate dalle immagini del fotografo Stefano Schirato in un intenso reportage realizzato con la giornalista Jenny Pacini, pubblicato sul Corriere della Sera lo scorso maggio in un articolo firmato da Marco Imarisio che lo ha definito “bello e intenso come può esserlo il racconto di una salvezza conquistata con dolore e fatica”.
Il progetto narra il percorso di persone contagiate dal Covid-19, sopravvissute alla malattia, che il fotoreporter ha incontrato, con il permesso del Primario di Malattie infettive e le dovute precauzioni, nell’Ospedale della sua città, Pescara, durante la quarantena, e ora è “tradotto” in mostra, non a caso chiamata “Risvegli”, ed esposta nelle sale al piano terra del Museo diocesano Tridentino. Inaugurato giovedì primo ottobre alla presenza del vescovo Lauro, l’allestimento è arricchito da pannelli e audio in cui si possono ascoltare le voci e le testimonianze delle persone risvegliate e rimarrà visitabile, gratuitamente, fino al 9 novembre.
Presentando la mostra, la direttrice del Museo diocesano, Domenica Primerano, ha citato papa Benedetto XVI: “La misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza e col sofferente. Questo vale per il singolo come per la società. Una società che non riesce ad accettare i sofferenti e non è capace di contribuire mediante la com-passione a far sì che la sofferenza venga condivisa e portata anche interiormente è una società crudele e disumana”. E ha fatto sue le parole del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, pronunciate a fine giugno al Cimitero monumentale di Bergamo per commemorare le vittime del coronavirus in una delle città italiane più colpite: “Fare memoria significa anzitutto ricordare i nostri morti e assumere piena consapevolezza di quel che è accaduto. Senza la tentazione illusoria di mettere tra parentesi questi mesi drammatici per riprendere come prima”. Parole poste all’inizio dell’allestimento per riaffermare il valore del ricordo rispetto a quel frettoloso “girare pagina” che nasce dalla paura di affrontare eventi dolorosi e che implica indifferenza verso l’altrui dolore.
“Questo progetto non è solo un documentare oggettivo – ha esordito Primerano -, parte dallo sguardo di compassione di chi è abituato a condividere la sofferenza e non ne ha timore e racconta paure ma anche sogni di guarigione e rinascita. La società allontana morte e dolore, riduce le persone contagiate e morte a numeri, invece è importante continuare la riflessione iniziata durante la quarantena, per questo ci occupiamo di percorsi individuali che sono anche collettivi e che aiutano a ritrovare la nostra umanità”.
“In mezzo a tante immagini di morte, che implicano il rischio di assuefazione, volevo raccontare chi guariva. Le prime volte sono andato senza macchina fotografica, entrando pian piano in queste vite, alcuni erano in coma, altri si stavano risvegliando. È stato un viaggio, dal ricovero in ospedale e dalla terapia intensiva al risveglio, accompagnando i pazienti guariti a casa, all’abbraccio dei familiari”, ha spiegato Schirato. “Tornare a vivere, come dicono gli abruzzesi, è una cosa grossa e dopo un mese e mezzo in ospedale, anch’io ho sperimentato un risveglio dal torpore della routine della vita quotidiana, fisico e soprattutto morale”.
“Con questa mostra, ancora una volta il Museo diocesano intercetta e abita il presente”, ha osservato il vescovo Lauro. “Ho ascoltato la testimonianza di un uomo che ha frequentato i volti segnati dal Covid e da questi incontri è stato cambiato: il vero cambiamento non dipende dalla tecnologia, avviene solo a livello relazionale. Durante l’estate sono andato nelle comunità più colpite dalla diffusione del contagio e ho incontrato persone che sono guarite e altre che hanno perso i loro cari, magari dopo averli contagiati. La narrazione del Covid è fatta solo di numeri. La bellezza di questa mostra sta nel restituire un volto ai numeri e l’auspicio è che termini questa narrazione che dimentica che morti e contagiati sono persone. Lasciamoci contagiare da un’altra notizia: non possiamo vivere senza l’altro”.
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