Quando anche il prato rischia l’estinzione. Se andiamo indietro nel tempo, fino ad arrivare alla preistoria, il prato è sempre stato un ambiente creato dall’uomo per allevare bovini ed ovini. E così con i secoli è nata anche tutta una flora legata a questi prati, e in particolare a quelli montani meno concimati e meno lavorati, che ora si stanno progressivamente perdendo. Oggi infatti, anche in montagna e non solo in pianura, tutto è cambiato: il concime viene prodotto sinteticamente e i prati, spesso tramite bonifiche, sono diventati il luogo dove smaltire gli eccessi di sostanze azotate. I pochi rimasti, invece, vengono abbandonati e piano piano ritorna il bosco.
È la fine di un ambiente tradizionale? Questa domanda se l’è posta la Fondazione Museo civico di Rovereto ed è stata al centro di una conferenza inserita nella rassegna di eventi dedicata al Parco naturale del Monte Baldo, chiamata ZiBALDOne. “I prati falciati, ricchi di specie autoctone, stanno scomparendo in Trentino. Alcuni vengono lasciati a sé stessi, mentre altri vengono spianati, bonificati con le ruspe e resi più accessibili per i trattori”, spiega Filippo Prosser, responsabile della sezione Botanica per il Museo civico di Rovereto.
Se fino a qualche anno fa, si potevano vedere ancora alcuni contadini intenti a realizzare i tradizionali covoni di paglia, che vedevamo ai bordi delle strade di montagna, oggi anche solo l’esistenza dei prati, così come li conosciamo, è a rischio. Il cosiddetto sfalcio del prato in quota sta diventando un’attività sempre più rara e poco sostenibile. “Uno dei fattori determinanti è il concime – sottolinea Prosser – Prima i prati venivano poco concimati, ora invece sono riempiti di letame che non si sa più dove buttare, le mucche hanno cambiato alimentazione, sempre meno naturale, e così anche la flora tipica dell’ambiente alpino si sta modificando. Oggi si preferisce bonificare, spianare il prato nel giro di venti minuti con delle grosse macchine, piuttosto che falciarlo. A livello botanico, le uniche specie che riescono a resistere a tutti questi interventi umani sono le graminacee e le ombrellifere”.
Stiamo dunque perdendo un patrimonio naturale, e i contadini sono i primi a rendersene conto, ma, come ci racconta Prosser, non hanno molte alternative. “Anche loro sono costretti a competere con l’agricoltura di pianura, e dunque sono obbligati ad adeguarsi per ragioni economiche. I premi per chi falcia ci sono, ma non tengono conto delle caratteristiche del terreno: ad esempio nessuno controlla se un contadino è stato bravo a mantenere una flora variegata, e quindi, visto che non conviene, sono in pochi ad impegnarsi in questo senso. A resistere oggi sono ancora i piccoli proprietari che preservano il loro fazzoletto di verde, ma parliamo di pochi ettari in totale”.
Alcune eccezioni, in una regione che sta progressivamente perdendo i suoi prati tradizionali, ci sono nella zona del monte Finonchio e del monte Pasubio. “Qui è nato un interessante progetto, portato avanti grazie ai custodi forestali, in cui è stato organizzato uno sfalcio generalizzato senza concimazione nelle aree di verde che stavano diventando prato. Questo è un esempio di sfalcio positivo, volto appunto a preservare una flora che esiste in questa zona dal 1400, da quando questi prati sono stati tagliati per la prima volta”.
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