Ricordi senza nostalgia, promemoria per una nuova apertura della scuola

Cambiano le regole per la scuola con la nuova ordinanza presentata da Fugatti il 18 gennaio. Foto Gianni Zotta

Lo spunto

Dopo “Sentieri” della scorsa settimana, dedicato ad una scuola da “fare insieme” e non da considerare “controparte”, Francesco Provinciali ha inviato a “Vita Trentina” una lettera, chiedendone la pubblicazione proprio in questa rubrica. Lo facciamo volentieri. Francesco Provinciali è un esperto di scuola a livello nazionale. E’ stato ispettore del ministero della Pubblica Istruzione, e perito del Tribunale per la giustizia minorile. Autore di libri e pubblicazioni su temi educativi e di politica familiare è editorialista di “Mente Politica”, la rivista on-line di Paolo Pombeni e collaboratore di “Italia Domani”. La sua lettera appare soprattutto un incoraggiamento (e pro-memoria) per tutti i protagonisti della scuola che riapre dopo la chiusura del Covid. I suoi “ricordi”, infatti, non sono nostalgia per una scuola da relegare al passato, ma stimolo per una scuola da rilanciare e riconoscere nella sua ìmportanza oggi. Nella vitalità dei suoi ragazzi e nel valore dei suoi insegnanti, ora che il virus ha aperto gli occhi sul suo ruolo fondamentale.

La lettera, ricca di spunti, si può riassumere in alcune parole chiave. Che l’educazione e la gentilezza (salutarsi, puntualità…) valgono più delle lezioni e ne sono la necessaria premessa. Che pulizia e decoro (un tempo le unghie che i maestri controllavano, oggi mani lavate e mascherine) sono innanzitutto avere rispetto per se stessi. Che i bidelli non sono gli inservienti della scuola, ma il loro presidio, di presenza ed esempio. Sono le piccole umiltà quotidiane che danno senso all’apprendimento delle più alte conoscenze, Peraltro la scuola italiana resta una delle migliori del mondo, come ben sa chi ha avuto l’occasione di studiare (o ha trovato lavoro) all’estero. Deve però mantenere il suo stile e recuperare consapevolezza delle sue potenzialità.

f.d.b.

Caro de Battaglia, forse mi sbaglio ma una volta le cose si chiamavano con il loro nome. Oggetti, azioni, funzioni: tutto si spiegava prima e con poche parole, mi pare che la realtà fosse più a portata di mano, tangibile.

Poi sono arrivate le folate di vento del post-moderno: globalizzazione, complessità, trasparenza, sinergie, condivisione, background, retroterra, mappe, diagrammi di flusso, check-up.

Ho dimenticato qualcosa? Mi scusino i lettori amanti degli scandagli introspettivi e delle inconcludenti affabulazioni: anche se sono nato in riva al mare so al massimo distinguere le acciughe dalle sardine.

Però ricordo con nostalgia quella scuola dov’ero entrato per la prima volta come recalcitrante scolaro: mi ero poi affezionato alla maestra e alla fine non sarei mai venuto via. Ripensandoci adesso mi accorgo che lei e i miei genitori mi insegnavano le stesse cose: studiare, impegnarmi, rispettare le persone più grandi di me, voler bene ai miei compagni.

Forse i risultati non sono arrivati, per mio demerito: lo scolaro era attento ma successivamente l’uomo è stato poco diligente.

Crescendo ho poi incontrato molti illustri sapientoni ma di tutto ciò che ho sentito nella mia vita mi sono rimasti impressi quei tre o quattro valori che la famiglia e la scuola mi hanno inculcato.

Non mi parlavano di intercultura ma mi invogliavano a leggere tanti libri, non si usavano i computer ma si sapeva scrivere una lettera a un amico, mi piaceva guardarmi intorno e saper distinguere le stagioni.

Quando entravo in classe per prima cosa si pregava e di questo poi non mi sono mai vergognato, non c’erano bambini stranieri ma guai a tradire un amico e se tornando a casa dicevo di essere stato sgridato dall’insegnante mio padre non correva subito alla redazione di un giornale e neanche spediva un esposto in Procura, se mai rincarava la dose: mi mandava a letto senza cena e non mi faceva vedere Carosello.

Il direttore era un mito: se ne sentiva parlare ma si vedeva poco, quasi una leggenda. Se entrava nell’aula ci alzavamo in piedi per rispetto ma nessuno si sognava di andare nel suo ufficio a fare rimostranze.

Le bidelle si chiamavano proprio così: “bidelle”, non ausiliarie o collaboratrici ma la scuola era davvero pulita. Ricordo che una volta il direttore, trovando la scala sporca, le aveva chiamate tutte e si era inginocchiato a pulire i gradini, proprio lui, con lo straccio e il detersivo e alla fine a loro – che lo guardavano a bocca aperta – aveva detto “si fa così”.

Indossavamo i grembiulini perché cambiare vestiti tutti i giorni era un lusso – anche se le magliette non erano firmate – ma si trattava solo di camici, non di camicie nere.

Si apprendeva l’abc e si studiavano le poesie a memoria, poi gli psicologi hanno stabilito che si trattava di insostenibili vessazioni: “Alleggerire, troppa fatica”.

Ho sentito l’altra sera, a un TG, quel che diceva un apostolo della pedagogia del nuovo: “basta insegnare a leggere, scrivere e far di conto! Ora la scuola deve aprirsi alle nuove realtà”.

Può darsi che abbia ragione, resta da intendersi appunto sul significato delle parole. Personalmente ho dei dubbi, più per pratica che per grammatica.

Da quando nella scuola è entrato di tutto, senza filtri, senza controlli, senza pudori mi pare che le cose si siano a poco a poco rovesciate: il direttore – suo malgrado- non dirige, “coordina”, gli insegnanti sono sempre in riunione e i bidelli fanno venire i sindacati per controllare i loro carichi di lavoro: questo mi tocca, questo non mi tocca.

Anche per gli studenti dev’essere cambiato qualcosa, ma non del tutto per colpa loro. Più che aprir bocca basta che aprano le loro cartelle: merende, giornalini, telefonini, videogiochi e pochi libri, di solito troppo pesanti.

Trovo invece che una parola continui a circolare con insistenza, nelle scuole e nella vita, con crescente interesse, una parola di cui tutti si impossessano per scelta e convinta adesione: “diritti”.

Troppi diritti che portano spesso a molti rovesci.

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