La scuola si fa insieme, non è una “controparte”

L’impegno per riprendere in settembre con le lezioni a scuola. Foto © Gianni Zotta

lo spunto

“La scuola resta a piedi”, scriveva “Repubblica” giovedì 27 agosto, ma in questi giorni – mi pare – sia a livello nazionale che locale, si scrive di scuola quasi sparandole addosso. Il sottotitolo, nello stesso giornale, era ancora più inquietante: “Anche i governatori all’attacco: daremo la colpa a Roma”. E l’Ansa di martedì 8 settembre: “Stretta fino al 7 ottobre. Alta tensione sulla scuola”, precisando che “sull’istruzione è in corso una lite (sfiducia) fra la Lega e la ministra Azzolina”, che riconosce come non sia possibile eliminare tutti i rischi legati al virus. Ma mi chiedo: la scuola è di Roma o di noi tutti? e di chi è la colpa se si è diffusa la pandemia a livello mondiale e se l’estate ha portato a un “via libera” soprattutto nelle località di turismo marino? della scuola? Non occorrono certo i “master” in igiene pubblica per sapere che fra traghetti, spiagge, e movide (pare che gli italiani non sappiano più vivere senza) il numero dei contagi sarebbe aumentato. Ma è questo il modo giusto di ritornare a scuola?

Chiara C. – (Lettera firmata, Trento)

Confesso di seguire anch’io, cara signora, con stupore e a volte con indignazione, le polemiche sulla scuola alla vigilia della sua riapertura, con la conferma di ciò che già ben si sapeva e che solo una certa ipocrisia politica (stracciarsi le vesti è più facile che risolvere i problemi) ha cercato di far dimenticare: e cioè che il virus non si è per nulla dissolto nell’aria e che l’estate, con la promiscuità dei trasporti e dei divertimenti, ne ha moltiplicato i contagi.

Ma proprio per questo non è il caso di litigare, di strumentalizzare, o di abbandonarsi all’alibi di dare sempre la colpa a qualcun altro e di chiedere condanne, invece di aiutarsi. Il Covid è certo una sciagura, andrà avanti a lungo (il vaccino arriverà, ma sembrano patetici gli atteggiamenti di attese miracolistiche…) l’epidemia ha colpito come una grandinata, ma non appare la peggior disgrazia, come anche autorevoli economisti riconoscono. In passato si sono vissute situazioni ben più gravi. Vi sono poi Paesi – a noi vicini – in condizioni ben peggiori dell’Italia e questo dovrebbe spingere a reagire con buon senso, anche se il termometro sale sopra i 37.5 di febbre. Ciò vale anche, e soprattutto, per la scuola, che non è una “controparte” (della comunità, delle famiglie, degli insegnanti). La scuola – non va mai dimenticato – la facciamo noi. La scuola è un servizio, ma non un diritto automatico e richiede la convinta partecipazione di chi la frequenta e di chi la gestisce. Va costruita insieme, insomma, tenendo conto di esigenze diversificate (delle famiglie, degli insegnanti, degli allievi…) ma anche delle potenzialità che proprio sulla scuola, con l’autonomia, sono state rivendicate. In questo senso vanno stroncate le “furbizie” (di cui in tanti sono maestri, non era mica difficile, almeno un tempo, far salire la febbre alla vigilia di una temuta verifica!) mentre vanno promosse iniziative (non contro Roma, che non è il caso) ma di collaborazione e capacità di fare da sé dentro la grande tradizione della scuola trentina.

Nei primi anni Quaranta del Novecento (c’era la guerra, piovevano bombe non virus, le scuole urbane erano “sfollate” nei sobborghi e nelle valli, sugli esami, come ora, si chiudeva un occhio e magari anche due) le maestrine appena diplomate venivano mandate a fare supplenza nei paesi di montagna più remoti. Alla Regnana (fra Piné e la Val dei Mòcheni) ogni bambino veniva a scuola, la mattina, portando alla maestra uno “stizzo”, un pezzo di legna da ardere. Uno. Ma insieme i 25 o 30 legni bastavano a riscaldare una classe nelle mattine d’inverno. Un legno solo. Ora pare impossibile portare una mascherina in classe. Pare poi che non si possa fare lezione se non ci sono i banchi con le rotelle. Ma chi è andato un po’ a scuola sa a cosa potrebbero servire i banchi con le ruote. Come sfuggire alla tentazione di fare le gare prendendo l’aula per un circuito di corse, invece che restare distanziati?

Le giornate hanno poi 24 ore, e di queste ragazze e ragazzi ne trascorrono in classe in genere quattro. E le altre dove le passano? In casa? Improbabile. Ci sono le strade, i bar, gli amici… come sapere se qualche linea di febbre è colpa della scuola o del tempo libero? Ecco perché è vile cercare capri espiatori, ecco perché bisogna aiutarsi (rispettando tutti regole e comportamenti) non denunciarsi.

Ed ecco perché, nell’eventualità di qualche classe in quarantena per casi positivi, occorre reagire senza farne un dramma. Certo la scuola insieme, diretta, è infinitamente superiore a quella on-line (li guardano fin troppo telefonini e computer i giovani) ma se per un paio di settimane si va sulle macchinette non è un dramma. Naturalmente l’insegnamento computerizzato richiede modalità diverse: più lettura e meno ascolto, più scrittura (temi, resoconti, riassunti che sono la base di tutto) e meno visioni passive. Ma possono aprirsi esperienze e curiosità nuove.

Si prospettano mesi difficili, inutile negarlo. Ma è sempre meglio affrontarli serenamente, collaborando, invece che rissosamente, litigando. E potrà diventare un’occasione di crescita per tutta la scuola trentina.

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