Prepariamoci per tempo al Recovery Plan

Nel settennio 2014-2020 l’Italia è la seconda, dietro la Polonia, fra i Paesi più finanziati ma la terzultima per iniziative attuate

Riuscirà l’Italia a spendere le risorse assegnate dall’Unione europea per il Covid-19? Motivi di ottimismo ce ne sono, ma pesa la tradizionale difficoltà del nostro Paese a sfruttare i fondi comunitari. Il Trentino fa un po’ eccezione (dall’Europa ha appena ottenuto 51 milioni per contrasto alla pandemia, destinati a dispositivi sanitari, ammortizzatori sociali, garanzie su crediti e computer per scuole) ma incide poco sulla media nazionale e non è esente da intoppi. Nell’apposito portale della Commissione (in inglese) una variopinta serie di grafici ci ricorda che nel settennio 2014-2020 l’Italia è la seconda, dietro la Polonia, fra i Paesi più finanziati (con un budget di 75 miliardi per i diversi programmi europei su 643 miliardi per l’insieme dei ventisette Stati) ma la terzultima per iniziative attuate. Delle risorse assegnate per lo sviluppo regionale, rurale, sociale, occupazionale e marittimo abbiamo infatti impegnato solo il 73% (contro una media UE dell’86%) e speso appena il 35% (media UE 41%). Più lenti di noi, di poco, soltanto la Spagna (magra consolazione) e il Lussemburgo. Per fustigarci possiamo fare il confronto con la Germania, che ha ricevuto 45 miliardi, impegnando il 91% e spendendo il 47% (ed è solo al 15° posto) o con la più virtuosa di tutti, la Finlandia, che ha impegnato più di quanto assegnato (108%) e speso il 69%.

L’Italia deve dunque fare i conti con un serio divario di efficienza, sulle cui cause, dopo aver tirato in ballo i nodi atavici del sistema-Paese, tutte le diagnosi finiscono per convergere sull’inadeguatezza dell’amministrazione pubblica: impreparazione, invecchiamento, ritardi, negligenze, farraginosità, indecisioni, accanimenti e via di questo passo. Tutto vero, ma è mai possibile che la nostra burocrazia, pur con tutti i suoi difetti, sia peggiore di quella ungherese, rumena, maltese, lettone, cipriota, greca o bulgara, solo per citarne alcune? Forse le amministrazioni più dinamiche nella progettualità europea sono soltanto più “affamate” della nostra (magari perché restìe a tasse e debiti) e quindi più spronate a guardare verso Bruxelles. In effetti nella nostra cultura amministrativa si celebra molto di più la spesa, che non l’entrata (al contrario del privato) e si è apprezzati per il denaro elargito, più che per quello procurato. Ma se non vogliamo che il Recovery Plan ci svanisca sotto il naso è urgente cambiare prospettiva. Michele Michelini, dirigente del Servizio Europa della Provincia, ne è più che convinto: “Le priorità di lavoro, le logiche organizzative, gli obiettivi della dirigenza e gli incentivi vanno orientati al pieno utilizzo dei fondi europei. Gestirli può essere scomodo, per i tre livelli di controllo a cui le iniziative sono sottoposte, con relativi tempi e incertezze (anche l’Europa, quanto a burocrazia, non scherza!) ma offrono opportunità da non sprecare”.

Tanto più che c’è una novità importante: la Commissione ha rimosso la regola del cofinanziamento nazionale, che fin qui ha frenato non poco il ricorso ai programmi europei; perciò oggi i fondi strutturali possono finanziare progetti anche al 100 per cento, evitando allo Stato o alle regioni di contribuire con risorse proprie, da sottrarre ad altre priorità. Così la strada è più scorrevole, e la speranza che l’Italia possa risalire la classifica degli eurovirtuosi è più concreta. Ma bisogna “mettere in tiro” le strutture pubbliche prima che sia tardi. È una delle prime cose da fare.

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