Si pensa al lavoratore e subito viene in mente chi, entrando e uscendo dall’ufficio, timbra il cartellino. La pandemia, è chiaro, ha sconvolto quest’immagine: molte persone si sono ritrovate da un giorno all’altro a dover riorganizzare la propria vita lavorativa, cercando (non senza difficoltà) di conciliarla con quella familiare.
“Ma non è questo lo smart working”, sottolinea Marina Pezzi, responsabile dell’area formazione di Trentino Social Tank, che, nato nel 2014, organizza attività di consulenza e formazione per le piccole medie imprese ma anche per singole persone che vogliono entrare nel mercato del lavoro. “È stata certamente una situazione difficile che però non può assolutamente essere presa come esempio di smart working. Questo è arrangiarsi. E ognuno l’ha fatto secondo le proprie possibilità. Ripartire adesso è possibile, ma bisogna farlo con programmazione”, aggiunge.
Lo smart working è anche detto “lavoro agile”, ed è una modalità di lavoro del tutto innovativa rispetto a quella alla quale siamo abituati. Nello smart working non si timbra il cartellino in ufficio: è prevista la flessibilità di orari e di spazi del lavoro, perché nel lavoro agile si lavora prima di tutto per obiettivi.
Il che non è semplice, soprattutto all’inizio. “Prima del lockdown, era una modalità adottata da poche imprese. Per le piccole e medie imprese in particolare, è uno strumento difficile da inserire: c’è ancora il retaggio dell’imprenditore che controlla tutto ciò che fa il suo dipendente. E sicuramente è molto più facile controllare un dipendente in azienda rispetto a quando lavora da casa”, spiega Elisa Poletti, presidente di Trentino Social Tank.
Quando si lavora per obiettivi e con una maggiore flessibilità oraria si ottengono solitamente risultati migliori dal punto di vista lavorativo: il lavoratore è infatti più coinvolto e motivato. Allo stesso tempo, però, c’è il rischio che sia sempre connesso: la giornata lavorativa si allunga, e di conseguenza il tempo dedicato alla famiglia si accorcia. Per questo si parla di “diritto alla disconnessione”. “Ormai siamo abituati a ricevere mail a tutte le ore. Ma ci sono delle tecniche che ci dovrebbero permettere di usare lo smart working in maniera più efficace: basterebbe banalmente anche solo disattivare le notifiche del cellulare quando non si lavora”, spiega Poletti.
Inoltre, lo smart working è spesso pensato – e spiegato – come una misura per permettere alle donne di conciliare in maniera più efficace la propria vita lavorativa con quella familiare. “Si tratta più che altro di un problema culturale. L’abbiamo visto in questo periodo, quando le donne si sono trovate a dover gestire carichi familiari notevoli. Molto spesso si parlava della loro responsabilità di dover conciliare vita privata e lavorativa; in realtà dovrebbe essere una responsabilità condivisa. È necessario quindi lavorare a monte, per modificare quel paradigma culturale secondo il quale è la donna, piuttosto che l’uomo, ad avere bisogno dello smart working”, afferma Poletti.
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