Il virus ci costringe a cambiare. E insieme

L’emergenza sanitaria non conosce barriere culturali o etniche. Foto Zotta

Lo spunto

Il cuore della “Lettera alla comunità” che l’arcivescovo Lauro Tisi ha diffuso in occasione della festa del patrono di Trento, San Vigilio, è rappresentato dal messaggio che ne diventa anche il titolo “Noi restiamo vulnerabili”. L’arcivescovo parte dalla spesso affannosa ricerca di lievito e farina nei giorni dell’isolamento dovuto all’epidemia Covid , rileggendola come simbolo di una più profonda “fame esistenziale”, messa in luce da “un’emergenza che ci ha spogliati delle nostre false sicurezze”. “Abbiamo avuto l’ennesima conferma – prosegue .- che siamo inesorabilmente vulnerabili e non possiamo bastare a noi stessi: siamo sorretti da chi è venuto prima, ma al contempo siamo ciò che seminiamo. A fare la differenza è la cura delle radici”. (E in questo contesto assume ancora maggior valore la necessità di rispettare la fragilità di ogni vita, dagli anziani che più hanno subito i rischi del morbo, ai giovani che studiando in solitudine smarriscono i contatti per completare la loro maturazione). L’arcivescovo punta il dito contro “un modello di sviluppo fondato sulla ricerca del profitto e dell’efficienza a qualunque costo” nell’illusione di “poter tenere il tempo sotto controllo”. “Abbiamo continuato a concepire un mondo per le cose più che per gli uomini”.

(L’Adige, 25 giugno)

L’arcivescovo Lauro Tisi ha scritto questa lettera, che i giornali hanno ben riassunto, pubblicandola in un librettino agile, da portare con sé in tasca, con lo stesso formato di un telefonino tanto da apparirne quasi il complemento. O un’alternativa, ché una pagina alla volta, un messaggio personale un po’ nascosto come un “samizdat”, una parola che resta rispetto alle immagini che appaiono e scompaiono sul display, può ben risultare di interesse in qualche pausa di “smart work”.

Un tempo questi messaggi venivano chiamati “lettere pastorali” ed erano in genere “esortative” per i cristiani. Quello di mons. Tisi anche quest’anno si presenta come un messaggio rivolto volutamente a tutti, al di là di fede e appartenenze, tanto da chiamarsi “lettera alla comunità”. E non a caso. Tutta la comunità, infatti, è stata colpita dal virus e di tutta la comunità l’Arcivescovo si fa carico, a conferma che il cristianesimo non è una questione “privata” fra l’uomo e le sue credenze, ma è un “incontro” (una serie di incontri, con Cristo che fa conoscere il Padre, con i doni della vita che Maria offre, con i fratelli, con la redenzione dopo le cadute) un incontro radicato nella Storia e che nella Storia prosegue.

Nemmeno la coincidenza con la festività di San Vigilio è casuale. Sono suggestive le Feste vigiliane, ma, come ha commentato il giornalista Rinaldo Cao in uno dei messaggini che nei giorni di clausura si sono incrociati ancora con più frequenza, la figura di Vigilio, nella sua spiritualità e nel suo ruolo anche civile di vescovo, non merita di “evaporare” solo nel folklore, assieme alla pur ottima polenta dei Ciusi e dei Gobi. E’ Vigilio, che ebbe come amici e maestri Ambrogio a Milano e Crisostomo a Costantinopoli, che diede unità e identità al Trentino, superando le dispersioni delle tribù romane e retiche. Ed oggi, a ben guardare, una delle “lezioni” del virus è proprio quella di “costringere” a superare divisioni e particolarismi, mostrando come un unico destino riguardi tutti, come la rincorsa al saccheggio della natura e la rincorsa ai profitti accentuino disuguaglianze che poi ricadono come un boomerang non solo sulla società, ma sulla stessa vivibilità personale.

Il virus, infatti ha mostrato la fragilità della condizione umana, ma ha anche evidenziato i lati oscuri di un sistema economico e sociale che già prima del virus si trovava in “impasse” , il precariato, l’evasione, il lavoro sfruttato, la fuga da se stessi per essere sempre “altrove”, gli ammassamenti, le esclusioni … Ha mostrato che occorre tornare soprattutto a far pace con la natura e con i fratelli e che il male sta proprio nel dividersi. Così, paradossalmente, ma significativamente, il virus ha reso deserte le chiese, ma ha esaltato le testimonianze di fede, di amore, di sacrificio di tanti, tantissimi fratelli che proprio nei “distanziamenti” hanno saputo creare comunità: dagli infermieri ai commessi, dagli anziani che hanno visto spegnersi le loro vite, ai giovani che con la loro vitalità hanno tenuto accesa la voglia di futuro, dai frati cappuccini pesantemente colpiti, ai parroci che hanno seguito il loro popolo nei momenti più difficili, colmando le solitudini degli ultimi commiati.

E’ anche apparso come la società abbia bisogno di medici – del corpo, dell’anima – e di pastori – di cuore e presenza – capaci di riunire un gregge disperso. Sotto questo aspetto resta emblematica la grande figura di papa Francesco, quella sera di fine marzo, solo sotto la pioggia in piazza San Pietro, a testimoniare col suo silenzio che tutto possono colpire i virus che ci assalgono, ma non la fiducia nella redenzione, in un abbraccio eterno di comunione. Sono temi, questi, che percorrono la lettera di mons. Lauro e la animano, quando riflette su come la Chiesa debba essere sì “ospedale da campo” per accogliere con misericordia e curare le ferite del mondo, ma come al tempo stesso proprio dalla pandemia debba venire nuova energia, per avviare equilibri esistenziali e rapporti sociali più giusti. La “lettera alla comunità” diventa così un messaggio di speranza e di volontà rivolto a tutto il Trentino. Guardare avanti superando errori e rancori.

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina