La figlia prediletta e la custodia della madre

“La ritroverò tanto diversa? Mi riconoscerà ancora?” Alla vigilia del Grande Giorno, le domande tumultuavano nel cuore della figlia prediletta. Lei che per cinque anni, dall’inserimento sofferto della madre in Casa di riposo, andava a trovarla almeno una volta al giorno, ora avvertiva un timore strano e inconfessato: la paura d’incontrarla. Perché era da 110 giorni esatti che non la vedeva – altro che quarantena – e intorno tutto era cambiato. Questi quattro mesi che hanno stravolto il mondo, avranno squassato anche la quercia ultranovantenne…?

“L’avevamo vista benino nelle videochiamate…”, si ripeteva la figlia, affrettando il passo per arrivare al colloquio fissato dietro al vetro (o una fioriera, per tenere le distanze). Altro che un’udienza scolastica, questo è un appuntamento con la nostra comune storia.

Venti minuti dopo. “Ciao mamma, torno presto, eh…” un bacione schioccato da lontano, il tempo finito in un baleno. Avanti il parente di un altro ospite, secondo la turnazione disposta dal responsabile sanitario e organizzata con impegno supplementare dal personale che in questi quattro mesi ha cercato di “essere famiglia”, come dice il direttore nelle mail quotidiane ai parenti.

“Non credo che la mamma mi abbia riconosciuto, era spenta, chiusa” riflette, tenendosi il magone dentro, la figlia prediletta, ma “forse era solo un momento storto, vedrai che la prossima settimana starà meglio quando in visita ci andrà mia sorella”. E la fiducia trascolora in riconoscenza verso gli operatori sanitari che hanno sostituito – almeno in parte – la carezza di un figlio o il sorriso di un nipote; qualche Oss ha ripreso in mano pettini e forbici per fare ai nonni un taglio di capelli o una messa in piega imperfetta ma rassicurante nella sua parvenza di normalità. Senza le visite e senza l’affollata festa dei compleanni, senza quei pomeriggi alla macchinetta del caffè, questi mesi hanno pesato sul tempo sospeso delle Rsa. Una solitudine poco abitata per molti, una monotonia diversa per altri. Nel caso di sofferenze mentali poi, la presenza fisica – il braccio di un marito, la guancia di una figlia – è la prima medicina, ricetta insostituibile.

Se è vero che il mondo qui dentro “respira” comunque con le voci di chi viene da fuori, la minaccia invisibile del virus si è fatta sentire. Ed in tanti venivano a sapere, forse anche la cara madre, che proprio gli anziani più fragili in altre Case sentivano di venir meno, senza poterlo dire ai propri cari.

Alla fine, anche quel colloquio distanziato e complicato dalla sordità appariva un dono alla figlia prediletta: poter salutare sua madre era stato quasi un privilegio. Forse anche la promessa di un legame reciso drasticamente da un’ordinanza urgente e che ora potrebbe ristabilirsi, se il 14 luglio arriverà un DPCM a decretare che i familiari possono tornare a entrare – pur con misure d’attenzione – nelle Rsa, così come gli alunni a scuola o i ragazzi al Grest.

Mettiamoci idealmente a spingere questi nonni in carrozzina, mettiamo un po’ d’ordine nella loro confusione (e nella nostra), usando bene i mesi futuri per non archiviare troppo in fretta i carichi di fatica accumulati nelle stanze di una lunga primavera.

Già, perché nel “bagaglio d’esperienza” additato dal vescovo nella sua Lettera alla comunità troviamo questa consapevolezza del dover “custodire gli anziani”: non solo in emergenza. Lo ha ripetuto papa Francesco, anche all’Angelus di domenica, biasimando la “cultura dello scarto” che non considera chi è invisibile perché giace allettato e senza potersi esprimere.

Ma vale in generale: per l’organizzazione socioassistenziale che dovrà ridisegnare le residenze per difendersi dalle minacce virali e per tanti adulti chiamati a guardare agli anziani con occhi diversi: senza retorica, con il realismo dei casi più favorevoli (il contributo di tanti “vecchi saggi”) ma anche il riconoscimento della dignità di ogni persona, anche quella più debilitata o assente.
Una riflessione decisiva e urgente per il nostro tempo. La abbiamo ritrovata sabato 27 giugno sul Trentino nelle due pagine di don Marcello Farina, ormai prossimo all’ottantesimo compleanno: “L’uomo – scrive fra l’altro il prete filosofo – è pienamente uomo anche nella vecchiaia: abituati a leggerla sotto il segno del meno e della fine, dimentichiamo che l’anziano è colui che ha vissuto più degli altri e, in ogni caso, che proprio nella fragilità dell’anzianità si fa più forte l’imperativo di custodire e di aver cura dell’umano che è in noi e negli altri, che ospita noi e gli altri”

vitaTrentina

Lascia una recensione

avatar
  Subscribe  
Notificami
vitaTrentina

I nostri eventi

vitaTrentina