“Adesso tocca a noi scrivere il seguito di questa nostra storia”. Non è una consapevolezza scontata, anzi è tutta da riaffermare, quella evidenziata dagli ospiti della videoconferenza proposta venerdì scorso dalla Rete Interdiocesana Nuovi Stili di Vita sul tema dei cambiamenti di comportamento dopo il Covid-19: Elena Granata, architetto e urbanista, e Antimo Palumbo, storico degli alberi.
La Rete, che coinvolge novanta Diocesi tra cui quella di Trento, ed è impegnata dal 2007 nella ricerca e condivisione su nuovi modelli di vita, ha ideato l’evento per sostituire il laboratorio nazionale previsto a Napoli. “Quando ci chiediamo se cambieranno i nostri stili di vita – ha esordito Granata – dobbiamo innanzitutto riconoscere che la pandemia ci ha già cambiati, radicalmente”.
Durante i mesi di quarantena, infatti, abbiamo sperimentato situazioni e sensazioni nuove. C’è chi ha perso il lavoro, chi lo ha svolto in smart working, chi ha sofferto la rottura di alcune relazioni. Alcuni cambiamenti in atto sono già irreversibili. Un fra questi è la miniaturizzazione del mondo: “Durante il periodo di chiusura siamo stati restituiti ad una dimensione di prossimità, anche tra le persone”. Allo stesso modo, pochi mesi fa, non avremmo mai creduto che la nostra quotidianità si potesse svolgere sul web. D’altro canto però, esistono degli elementi di resistenza al cambiamento molto forti.
“Se in quei giorni serpeggiava l’dea che fossimo davanti al momento di svolta – spiega la professoressa – oggi la sensazione è che il mondo stia tornando alla sua frenesia dopo un periodo di vacanza”. Infatti, siamo già di fronte ad un’azione di rimozione della sofferenza, che vediamo anche nel calo del senso di gratitudine verso gli infermieri. Questa dinamica è spiegata dal rapporto dell’uomo con la paura: quando siamo spaventati reagiamo, ma appena passato il pericolo torniamo come prima.
Il coraggio sta quindi nel “modificare i nostri comportamenti quando non sarà più necessario farlo”. Ma cosa può spingerci a cambiare radicalmente? Per i due ospiti la soluzione sta nella dimensione affettiva ed empatica. In questo ci possono aiutare gli alberi, che ci insegnano “ad andare con gli occhi verso il cielo”, come racconta Palumbo. “Il tempo degli alberi è completamente diverso da quello umano. – sostiene il presidente dell’associazione ‘Adea amici degli alberi’ – L’homo sapiens è comparso sulla Terra solamente 190 mila anni fa, mentre le prime piante 543 milioni di anni fa”.
Gli alberi quindi ci mostrano un tempo diverso, la pazienza, le stagioni. Il legame con il mondo vegetale si mostra ancora più evidente quando pensiamo all’aria, perché tutti respiriamo, ma “si può respirare in modi diversi”. E durante questa pandemia infatti ci siamo accorti della correlazione tra la quantità di alberi in un luogo e il benessere dei residenti.
L’attenzione e l’amore verso la natura non si può però insegnare sui libri, ma va fatto sul campo. Non bisogna convincere che una cosa sia giusta, ma bisogna farla sperimentare in modo che venga appresa in maniera inconsapevole. “È su questa capacità dei cittadini – concordano i due esperti – che dobbiamo investire”.
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