Domenica 21 giugno – Dodicesima del tempo ordinario
Ger 20, 10-13; Sal.68; Rm 5, 12-15; Mt 10, 26-33
Ho gustato in questo periodo di pandemia l’interessante romanzo di Saramago intitolato «Cecità». Vi si legge: «La paura acceca. Ma già eravamo ciechi nel momento in cui perdemmo la vista: la paura ci accecò, la paura ci manterrà ciechi». E’ quello che succede a tante donne e a tanti uomini anche del nostro tempo.
La paura, seminata talvolta ad arte, blocca il dialogo, crea nemici, innalza mura, impedisce ogni novità. E’ il rischio che corriamo tutti, quando sospiriamo di tornare al tempo di prima. Come se prima della pandemia vivessimo il nostro paradiso terrestre e non ci fossero ingiustizie macroscopiche, diritti calpestati, donne violentate nella loro dignità, lavoratori ridotti in schiavitù. Già qualche persona competente e autorevole avverte che sulle macerie lasciate rischiano di aumentare le disuguaglianze, la disoccupazione e la povertà. Può accadere che sprofondino ancor più nel baratro gli sconfitti della terra e siano accarezzati dalla dea bendata i sostenitori di ogni disuguaglianza.
La Chiesa corre altrettanti pericoli. Lo ricorda bene il vescovo di Pinerolo a proposito del dibattito accesosi sulla possibilità di riprendere la celebrazione delle Messe. Tornare, dopo l’epidemia, alla società e alla Chiesa di prima, «è una bestemmia, un’ingenuità, una follia».
Deve nascere, scrive ancora il vescovo, «una società che riscopre la comunità degli umani, l’essenzialità, il dono, la fiducia reciproca, il rispetto della terra». Quindi non dobbiamo tornare semplicemente alla normalità…. «Sogno cristiani che non si ritengono tali perché vanno a messa tutte le domeniche (cosa ottima) , ma cristiani che sanno nutrire la propria spiritualità con momenti di riflessione sulla Parola, con attimi di silenzio, momenti di riflessione di fronte alla bellezza delle montagne o di un fiore, momenti di preghiera in famiglia, un caffè offerto con gentilezza…»
E’ possibile tutto questo? Un aiuto ci viene dal bellissimo Vangelo di questa domenica, quando Gesù invita i discepoli a superare la paura, quando dice che Dio ha fiducia in loro, perché il Padre li ama. Gesù, che non è venuto per condannare, ma per salvare il mondo, che non strappa la zizzania dal campo dove è seminato il grano, che dona all’operaio dell’ultima ora come al primo, «ci ha mostrato a quale grado di umanità conduca vivere il rapporto con Dio con atteggiamenti filiali». (Carlo Molari)
E’ la fiducia del figlio, infatti, che fa superare la paura. La paura del fallimento, invece, è insidiosa. Se Gesù ci avesse ceduto, non avrebbe portato avanti il suo progetto; egli però pensava di offrirsi in una proposta vitale. Neppure i cristiani, o la Chiesa, dovrebbero essere preoccupati a preservare se stessi. Sull’esempio del loro maestro dovrebbero perdersi per il bene dell’umanità. Non è forse l’invito che Gesù fa a tutti? «Chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia la salverà.» (Lc 9,24) Una Chiesa timorosa del futuro e impaurita è una chiesa senza fede. Il Padre è sempre presente, conosce persino i capelli del nostro capo: la chiesa non deve occuparsi di ciò che sarà, di ciò che accadrà, ma solo di essere fedele a Lui. Necessario è abbandonare la logica della convenienza e abbracciare la logica della libertà; importante è la denuncia di ciò che avvilisce l’uomo. Sta tutta qui la linea vincente secondo il Vangelo.
La chiesa non dovrebbe avere paura di cammini seri e impegnativi prima dei sacramenti. Ne siamo convinti? Li sappiamo programmare? Le nostre comunità sanno abbandonare la logica della convenienza per abbracciare la logica del coraggio evangelico?
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