C’è un vecchio fantasma che circola ancora, e sempre di più, all’interno dell’Unione europea. E’ quello che potremmo chiamare “sovranismo istituzionale” o più semplicemente nazionalismo, per utilizzare un’espressione meno recente ma sempre valida. Sono cioè i governi dei singoli Paesi o i loro organismi più rappresentativi a mettere in discussione le regole e i meccanismi comunitari da essi stessi approvati e ratificati nei successivi Trattati UE.
Non è certo una novità: nel 1965 fu ad esempio il Generale De Gaulle a contestare il Trattato di Roma per la sua regola delle votazioni a maggioranza qualificata all’interno del Consiglio dei ministri europei: da allora e per vent’anni si passò quindi, per fare piacere alla Francia, al voto all’unanimità con grave danno al processo decisionale comune.
Oggi, a farci rivivere quel clima, è subentrata la Corte costituzionale tedesca che in una sua recente sentenza ha ultimativamente chiesto alla Banca Centrale Europea di giustificare il cosiddetto “quantitative easing (QE)”, cioè l’acquisto di titoli di Stato nazionali per evitare il collasso dell’Euro, altra grande conquista europea.
La mossa della Corte tedesca solleva alcune problematiche estremamente negative per l’UE. La prima è che una Corte nazionale, per quanto autorevole, pretende spiegazioni da un’istituzione europea, la BCE, che sfugge alla sua competenza diretta. La seconda è che essa si mette in contrasto con la Corte di Giustizia europea, che già un anno fa aveva dato parere positivo ad un’analoga richiesta di giustificazione del QE.
La terza è che mettendo in dubbio il giudizio già espresso dalla Corte europea si mette in pericolo un assunto chiave per fare operare l’UE al riparo dagli interessi nazionali: la supremazia del diritto comunitario su quello nazionale. In un solo colpo, cioè, la Corte di Karlsruhe ha scosso le fondamenta della costruzione comunitaria mettendo in imbarazzo lo stesso governo tedesco e facendo gioire gli altri governi “sovranisti” dell’UE.
Negli stessi giorni, infatti, la Corte di Giustizia europea ha condannato tre paesi del gruppo di Visegrad, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, per violazione della legge comunitaria e li ha quindi resi passibili di una consistente multa. La vicenda si riallaccia al rifiuto di quei Paesi di accogliere al proprio interno una piccola quota dei 160.000 immigrati che nel 2015 affollavano i centri di ricovero in Italia e Grecia. Mentre la Cekia si limitava ad un simbolico accoglimento di 12 rifugiati su una quota totale di 2.000, Varsavia e Budapest chiudevano ermeticamente le frontiere.
Non era solo la mancanza di solidarietà a preoccupare il resto dell’Unione e delle sue istituzioni, ma il fatto che era stata violata una regola comunitaria: quella di una decisione di ricollocamento degli immigrati sulla base di un voto a maggioranza qualificata all’interno del Consiglio dei ministri degli interni dell’epoca. Pur con il voto contrario dei tre Paesi in questione, la decisione era stata presa secondo le regole comunitarie e quindi era diventata direttamente vincolante per tutti i membri dell’UE, compresi quelli che avevano votato contro. Facile quindi per la Corte arrivare al verdetto di condanna dei tre governi, che sulla base di supposti pericoli alla propria sicurezza interna, a causa di eventuali terroristi celati fra i rifugiati, si erano rifiutati di applicare la legge comune. Ma anche questo comportamento deviante dalla solidarietà e dalle regole comuni, fissate in Trattati lungamente negoziati e ratificati da tutti i paesi membri, non fa altro che introdurre elementi di ulteriore incertezza nei meccanismi decisionali dell’UE.
Sono tutti segnali che non aiutano l’UE a procedere con maggiore speditezza sulla strada di una progressiva integrazione. Che ciò poi avvenga nel corso di una delle più gravi crisi cui l’UE è oggi chiamata a rispondere non fa altro che frenare anche le intenzioni migliori. Non vi è quindi da stupirsi che quattro Paesi fra i più ricchi d’Europa, Olanda, Austria, Danimarca e Svezia, non facciano altro che guardare al proprio interesse nazionale per porre ostacoli alle proposte di un Recovery Fund atto a rispondere efficacemente alle drammatiche condizioni economiche del dopo-Coronavirus. In fondo, questo “sovranismo istituzionale” è di gran lunga più pericoloso dei partiti e partitini nazionalisti che popolano i nostri Paesi e che prendono forza proprio dai comportamenti devianti di governi e organismi nazionali che negano le regole che essi stessi hanno contribuito a fissare in Trattati negli anni passati.
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