Come dare torto a papa Francesco che ci ricorda che siamo tutti nella stessa barca, chiamati a remare insieme?
Parrebbe, a prima vista cosa tanto evidente da non richiedere altro che convinta adesione. Non è così. Per riconoscersi in questa affermazione ci è richiesto uno sguardo lungimirante, forse proprio quello che ci è mancato per tanto tempo quando navigavamo nel mare della vita ciascuno per proprio conto, incuranti gli uni degli altri e disattenti – che dico disattenti? – indifferenti, come per altro lo stesso Francesco, non molti anni addietro, in altra circostanza, ci aveva richiamati sostenendo che ci eravamo infilati in una situazione di globalizzazione dell’indifferenza.
Certo, esistono molti dubbi ancora sull’origine e le cause della pandemia. Sappiamo però per certo che ne esistono almeno una cinquantina di virus appartenenti al cluster di Sars e che vari studiosi avevano previsto la possibilità di una nuova epidemia dopo quelle passate, l’ultima delle quali nota come “influenza suina”. Anche allora i morti furono nell’ordine di decine di migliaia. Ma il mondo non si curò di prestare maggiore attenzione e attrezzarsi per fronteggiarne di nuove. E questo è imputabile alla nostra stoltezza, a quella dei governanti ad ogni livello: sovranazionale, europeo e nazionale.
E quando le tragedie colpivano in modo sconvolgente persone e popoli a noi distanti, cosa facevamo? Ci siamo ricordati, allora, che siamo sulla stessa barca? Non direi. Nel migliore dei casi in tanti, troppi, abbiamo versato qualche lacrima davanti a servizi televisivi epidermici, di pochi minuti per non guastarci la cena e nel migliore dei casi abbiamo messo mano al cellulare per il solito stantio invito a donare un euro con un sms.
Abbiamo dovuto toccare con mano, in prima persona, che significa trovarsi all’improvviso sballottati dalla tempesta imprevista (?) di una pandemia che a dispetto di muri, filo spinato, confini sbarrati è penetrata fin dentro le nostre case, per accorgerci che il dolore degli altri è uguale al nostro; che la paura ha le stesse fattezze per tutti e ciascuno, che la morte incute lo stesso timore e non fa distinzione tra etnie, religioni, scelte di vita, professioni.
Sì, ci stiamo accorgendo che il cielo sopra di noi è lo stesso, che la terra che calchiamo può essere luogo di vita o di morte per tutti, che l’acqua è preziosa quanto una abbraccio atteso, sperato, invocato. La tragedia che stiamo vivendo ci ha aperto gli occhi, aguzzato lo sguardo, mostrato che nel cuore di ogni persona c’è tanto di buono, che basta così poco a farlo emergere, danzare, cantare.
Allora perché gli opponiamo resistenza in tempi diversi, immaginandoci diseguali, nemici, avversari, invece che fratelli con un destino comune? Per remare tutti assieme dobbiamo imparare ad amare, ad amarci.
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