Un gruppo di volontari, alcuni dei quali appartenenti all’Associazione Oratorio S. Antonio, che da diversi anni collabora con l’associazione “Per Un Mondo Migliore”, che opera da oltre vent’anni in Croazia e Bosnia per dare sostegno alla popolazione colpita dalla guerra nei Balcani, alla fine di febbraio si è recato a Bihać, in Bosnia Erzegovina, per realizzare alcuni interventi nei campi profughi della città. La loro testimonianza.
A Bihać abbiamo vissuto giornate intense che ci hanno spremuto il cuore e che hanno tirato fuori da ognuno di noi amore, compassione, rabbia, vergogna e solidarietà. Eravamo in otto, quindi spesso ci siamo divisi in varie attività: murales, distribuzione aiuti, spettacoli e siamo riusciti a raggiungere molteplici scopi.
Prima di tutto ci siamo recati al campo profughi Bira, che accoglie circa 2000 uomini, fra cui parecchi minori non accompagnati, dove abbiamo collaborato con i volontari dell’organizzazione non governativa Ipsia: ci hanno chiesto di abbellire i muri nella zona dove distribuiscono caffè e tè e dove le persone si trovano per qualche gioco di società, dipingendo dei murales per creare un’atmosfera più gioiosa.
Quanti racconti in quelle pennellate, tanti i momenti dove non si dipingeva più ma si parlava occhi negli occhi, cuore a cuore. Sono sguardi difficili da sostenere, quelli che ogni sera vedi prima di dormire, sguardi e racconti che non vorresti mai vedere né sentire.
Più di un ragazzo a cui abbiamo chiesto se voleva pitturare ci ha risposto che era stato riempito di botte dalla polizia al confine e che non poteva muovere le braccia, le mani, qualcuno era in carrozzina con la gamba ingessata. Un ragazzo, John, ci ha detto che è al campo di Bira da 10 mesi ed ha provato “il game” (passare il confine viene chiamato il gioco) 12 volte. E per 12 volte è stato preso, menato e buttato nei boschi senza più nulla.
Un altro intervento ci è stato chiesto presso l’ospedale pediatrico, dove abbiamo realizzato dei murales per donare un sorriso ai bimbi lì ricoverati.
Altri due momenti di incontro sono stati effettuati presso i campi profughi per famiglie Borići e Sedra. Questi campi ospitano famiglie con bambini. Arrivano a piedi da Iran, Iraq, Pakistan, Afganistan, partono con i bambini piccoli per mesi, a volte anni, prima di arrivare.
Qui abbiamo fatto uno spettacolo per far divertire i bambini, seguito poi da allegri balli con loro. E’ stata un’esperienza molto toccante, specialmente poi parlare con alcuni genitori (parlano un po’ di inglese) e sentire le loro storie.
Lo stesso spettacolo ci è stato chiesto anche presso il Centro Culturale di Bihać per i bambini della città, per il 760° anniversario della città di Bihać. Erano oltre 400 bimbi. “Ridi ogni volta che puoi, è una medicina a buon mercato”.
Ma l’esperienza più impattante l’abbiamo vissuta allo “squat”, termine che significa occupare una casa abbandonata (in questo caso una vecchia fabbrica ancora mezza distrutta dalla guerra). Un accampamento illegale, dove si rimane sperando nell’accoglienza in un campo regolare o nella riuscita del “game”. Abbiamo chiesto il permesso di poter fare foto per poter raccontare quello che sta succedendo ed a fatica abbiamo scattato. È imbarazzante e penoso fotografare dove dignità non ce n’è più. Dentro di noi si è aperta una voragine. Quando ne senti parlare è tutto così astratto, ma entrare, parlare con loro occhi negli occhi lacera l’anima. Sono 200 uomini ammassati dentro questo edificio abbandonato; non hanno acqua, bagni, cibo, vestiti, coperte. Siamo riusciti a comprare sacchi a pelo, scarpe e calzini per una parte di loro, anche grazie ai negozianti del posto che aiutano i migranti con il cuore.
Siamo ancora frastornati, con gli occhi pieni di altri occhi disperati, con un profondo senso di vergogna per questa umanità. Siamo arrabbiati per tutte le cose che ci raccontano come vogliono o non ci raccontano per niente, disarmati di fronte all’ingiustizia, ci continuiamo a chiedere perché, che senso ha tutta questa sofferenza, quindi ora più che mai sentiamo il bisogno di capire quanto non conosciamo, informarci e condividere le esperienze con altre realtà impegnate in questo senso. E’ venuto il momento di dire chiaramente, anche a noi stessi, da che parte vogliamo stare.
E testimoniare, raccontare della presenza dei volontari dell’Ipsia che donano il loro tempo e il loro cuore a chi è invisibile, ma anche della polizia che non si limita a rimandare indietro i profughi che tentano di passare il confine, ma li picchia e li deruba delle poche misere cose che hanno con sé. Possiamo fare poco, ma abbiamo il dovere di farlo, la nostra piccola parte per tentare di rendere il mondo un po’ migliore.
Terminiamo questo nostro racconto con le frasi che abbiamo scritto sui muri del campo profughi di Bira: “YOU ARE ALIVE – sei vivo”; “HOLD ON TO YOUR DREAMS – non smettere di sognare”; “TAKE CARE – abbi cura di te”.
Anna, Carlo, Fabio, Marina, Michael, Noemi, Patrizia, Serena
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