Tutti presi dal Coronavirus, governi e mass media hanno girato lo sguardo dall’altra parte: il più possibile lontano dall’ennesimo dramma della popolazione siriana. Eppure è da mesi che tutti sanno, a cominciare dalle cancellerie dei nostri paesi europei, che l’ultima roccaforte della disperata resistenza al sanguinoso regime di Bashar al Assad sta per cadere.
Dopo nove anni di atroce guerra civile (oltre 380.000 vittime civili) Assad, con l’aiuto di Russi e milizie iraniane, sta riuscendo a riprendersi gran parte del paese. Dopo la caduta di Aleppo, circa tre anni fa, le forze della resistenza sopravvissute si erano ritirate nella regione di Idlib, una sacca territoriale nel nord ovest del paese al confine con la Turchia. Difficile pensare che Assad e i suoi alleati accettassero, malgrado numerose tregue e cessate il fuoco, di non completare il lavoro sporco riconquistando anche quel territorio. In effetti la regione di Idlib ha un’enorme importanza strategica, perché attraverso di essa passano due superstrade, la M5 che collega Aleppo con la capitale Damasco e la M4 che da Aleppo conduce fino Latakia, importantissima base militare “concessa” da Assad all’alleato Vladimir Putin.
A complicare il tutto ci si è messa anche la Turchia che voleva tenere sotto il proprio controllo l’area di Idlib, in modo da completare le conquiste territoriali al confine siriano ottenute negli anni di indebolimento del “nemico” Assad. Ma come spesso accade in questi ultimi anni al presidente turco Recep Tayyip Erdogan, i suoi calcoli politici e militari si sono dimostrati errati e il rivale Assad ha cominciato a bombardare i militari turchi insediatisi in quella zona, sempre con l’avvallo di Mosca che a parole è anche alleata di Ankara.
In questa assurda situazione agli oltre 3 milioni di rifugiati ad Idlib sono rimaste ben poche speranze di sopravvivenza e circa 1 milione ha quindi deciso di riversarsi al di là del confine nord con la Turchia.
A questo punto il “Sultano” turco, vistosi sempre più isolato e perdente, ha ben pensato di usare “l’arma” emigrati contro l’Unione europea, favorendone il passaggio attraverso la Turchia oltre Istanbul fino al confine del fiume Evros che in gran parte la separa dalla Grecia.
La minaccia, fin troppo evidente, è quella di riproporre ai Paesi europei l’incubo delle rotta balcanica del 2015, che portò oltre 1 milione di siriani fino nel cuore della Germania. Ma oggi la situazione è molto diversa da allora, poiché alla luce di quella esperienza diversi Paesi dei Balcani, dalla Grecia alla Croazia, per non parlare poi dell’Ungheria e dell’Austria, hanno innalzato barriere fisiche al passaggio dei disperati.
Il rischio è quindi quello di una reazione violenta che lasci sul terreno morti e feriti o, al contrario, che veda ancora una volta, come nel 2015, il cedimento dell’UE ad Erdogan, cui furono concessi oltre 6 miliardi di Euro per tenere sui confini con la Siria circa 3 milioni e mezzo di profughi.
Fu quella un’azione cinica e di corto respiro, poiché lasciava nelle mani di Erdogan un’arma di ricatto da potere usare a suo piacimento. Ed è quello che succede proprio oggi nel momento in cui il Rais di Ankara vuole l’appoggio dell’UE per contenere la strategia di Putin volta a tenere Assad saldamente nelle proprie mani, consolidando con ciò la presenza militare e navale di Mosca nel Mediterraneo orientale fino ad estendersi alla Libia, dove nuovamente troviamo turchi e russi ai ferri corti. Spiace quindi constatare la mancanza di visione strategica dell’UE, che sia in Siria sia in Libia avrebbe dovuto utilizzare tutte le energie e le politiche a disposizione per bloccare i conflitti in quei due paesi prima che essi finissero per ritorcersi contro la stessa Unione. E’ infatti solo dall’impegno a risolvere i conflitti che si può anche arginare meglio un’immigrazione incontrollata. Non è certo con i fili spinati che ciò può avvenire. L’Ue avrebbe già dovuto imparare questa lezione. Oggi, intervenendo tardi e male, rischia invece di macchiarsi dell’ennesima strage di innocenti e di disperati in cerca di un po’ di pace.
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