Il caos libico non fa sconti a nessuno. Se ne è accorto anche Vladimir Putin che con grande baldanza aveva convocato a Mosca i due leader libici Fayez al Sarraj e Khalifa Haftar per fare firmare solennemente il cessate il fuoco. Proprio quest’ultimo, suo protetto in Libia, si è rifiutato di farlo ed è tornato a Bengasi probabilmente per alzare il prezzo della sua adesione. Comunque lo si affronti, il ginepraio libico è destinato ad essere fonte di continue sorprese.
Vi è infatti un clima di grandissima ambiguità intorno alla Libia. Dopo lo sciagurato intervento nel 2011 degli europei, con in testa Francia e Inghilterra, sostenuti dagli Stati Uniti, per abbattere il regime di Gheddafi si era cercato di pacificare il paese attraverso le Nazioni Unite che avevano sostenuto la candidatura di Serraj a nuovo primo ministro di Tripoli.
Peccato che solo una minoranza di libici fosse d’accordo su questa scelta, anche perché ad Est, in Cirenaica, si proponeva come vero leader il generale Haftar. Invece di sostenere a fondo il premier Serraj, riconosciuto internazionalmente, l’Onu se ne lavava le mani lasciando che la situazione si incancrenisse fino all’odierno assedio di Tripoli da parte di Haftar.
A quel punto si sono mossi tutti, aggiungendo caos al caos. Così gli europei si sono inventati tavoli a 3 con Germania, Inghilterra e Francia, poi trasformati in tavoli a 4 con l’Italia e quindi, su proposta di Di Maio, in una triangolazione Italia, Turchia e Russia e così enumerando.
Ma la vera novità di questa partita è stata l’entrata diretta in gioco di Turchia e Russia su fronti opposti, l’una con Tripoli l’altra con Bengasi, ma pronte a trovare un accordo fra di loro, come era successo in Siria.
Ci si può illudere che la cosa possa funzionare e ormai tutti, europei compresi, si dicono pronti a celebrare il precario successo dell’inedita coppia a Berlino il 19 gennaio nella grande conferenza che dovrebbe accogliere tutte le parti interessate alla Libia, non solo i due contendenti in guerra fra loro, ma anche i governi della regione, dall’Algeria all’Egitto, dagli Emirati Arabi alla Tunisia.
Sullo sfondo, anche se coinvolti nella conferenza, vi sono anche i due principali perdenti di questa drammatica vicenda: l’Unione europea e le Nazioni Unite. Di quest’ultima abbiamo già detto: l’Onu non ha davvero vegliato sull’evoluzione della situazione in Libia ed ha finito per fare perdere credibilità allo stesso Sarraj, da essa sostenuto e voluto. Ma va detto che all’interno del Consiglio di sicurezza Onu siedono gli stessi attori, dalla Russia alla Francia all’Inghilterra, che hanno chiuso più di un occhio sul deterioramento della posizione di Sarraj.
Anzi, i primi due si sono schierati apertamente a favore di Haftar per inconfessabili interessi nazionali (il petrolio) e di influenza sul Nord Africa. Le stesse divisioni si sono manifestate anche all’interno dell’UE con Italia in bilico fra il sostegno a Serraj e il dialogo con Haftar e una Francia schierata con quest’ultimo. Il fatto che né Francia, né soprattutto Italia, abbiano sentito la necessità di mettersi d’accordo e di superare le divisioni la dice lunga sulle difficoltà che l’Europa incontra nell’affrontare le grandi crisi che la minacciano.
Ora è abbastanza tardi, di fronte al precipitare degli eventi e all’incertezza della situazione, che Russia e Turchia possano passare la mano agli europei. L’Unione europea potrà forse proporsi in un secondo momento, semmai la crisi libica volgesse in positivo. Sotto l’egida delle Nazioni Unite, cui alla fine dovranno rivolgersi nuovamente un po’ tutte le parti in causa, l’UE potrebbe eventualmente predisporre una forza di interposizione fra i due contendenti in attesa di una soluzione politica generale. Ed infine contribuire con il proprio potere economico alla ricostruzione di quel paese distrutto da nove anni di guerra civile. Ma è certo che l’avere lasciato irresponsabilmente correre questa crisi, ai propri confini meridionali, costerà moltissimo a tutti noi europei in termini di credibilità e ruolo internazionale.
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