Comincia davvero ad assomigliare ad una storia infinita l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Neppure il nuovo, sanguigno premier inglese, Boris Johnson, è riuscito a rispettare la data del 31 ottobre per tagliare definitivamente i ponti con l’UE.
La sua tracotante affermazione, “ do or die” (fallo o muori), di non chiedere altre proroghe a Bruxelles si è arenata di fronte alla decisione del parlamento
britannico di negoziare con l’UE un’uscita “soffice” dall’Unione.
Quindi, secondo Westminster, no ad una rottura traumatica, ma piuttosto chiedere altro tempo per portare a conclusione l’accordo di divorzio, già negoziato in questi lunghissimi anni di trattative, iniziate nel 2017, un anno dopo i risultati del referendum favorevoli all’abbandono dell’UE (51,89%).
Certo il negoziato è stato difficilissimo sia da parte inglese che europea. In effetti un’uscita della Gran Bretagna senza accordo significherebbe, fra le altre cose, un immediato ritorno ai dazi, al crollo del commercio fra le due parti, alla svalutazione della sterlina e alla fuga degli investimenti esteri dal Regno Unito e, infine, ad un drastico ridimensionamento del bilancio comunitario, che dovrebbe rinunciare al contributo netto inglese.
In più vi è anche la questione delicatissima del confine fra Irlanda del Nord (parte del Regno Unito) e Irlanda del Sud, pacificato e aperto solo 20 anni fa, dopo anni di guerriglia e oltre 3000 morti.
Rimetterlo in funzione, in mancanza di un accordo ad hoc, significherebbe riaprire la piaga del conflitto armato. Per evitare questo doppio potenziale disastro, economico e di sicurezza, si è quindi arrivati a fatica ad un pre-accordo, prima con Teresa May e ora con Boris Johnson, che ne ha modificato alcune parti.
Viste le quasi quotidiane sorprese di questa lunghissima vicenda, non è ancora detto che poi, il 31 gennaio, si possa scrivere la parola fine. Ma alcune lezioni si possono già trarre.
La prima è che l’uscita dall’Unione è un compito tutt’altro che facile. Le legislazioni nazionali dei Paesi membri sono imbevute di direttive e regolamenti comunitari che ne hanno completamente trasformato il carattere.
Bisogna quindi rimettere mano a tutta la massa di leggi, economiche, commerciali e sociali, che traggono linfa dai testi dell’Unione. Coloro che oggi, in particolare i partiti sovranisti, minacciano l’uscita dall’UE dovrebbero fare un esame di coscienza prima di dichiarare obiettivi del genere. Da noi in Italia lo stesso discorso vale, a maggiore ragione, per coloro che prospettano l’abbandono dell’Euro. Se guardiamo alle difficoltà di uscita degli inglesi, che neppure fanno parte della moneta comune, l’abbandono dell’Euro sarebbe un incubo ancora peggiore.
La seconda lezione riguarda la tentazione sempre più diffusa di ricorrere allo strumento del referendum: questioni di tale complessità non possono essere gestite con un semplice no o sì.
Semmai il referendum può essere utilizzato dopo il raggiungimento di un accordo, dopo avere avuto tutto il tempo e la conoscenza necessari per valutare le conseguenze di un atto di tale gravità. La drammatica confusione in cui è piombato il sistema istituzionale/politico inglese, considerato fino a poco tempo fa uno dei migliori d’Europa, la dice lunga sull’avventatezza di essersi legati le mani con un mandato pubblico che chiedeva l’uscita senza valutarne gli effetti. La terza lezione è che questa prima exit nella storia dell’UE mette in grave crisi lo stesso modello di integrazione europea. Oggi l’Unione appare completamente bloccata, timorosa come è di assistere alla sua graduale disintegrazione. Dopo decenni in cui la parola d’ordine e di progresso era l’esatto contrario, cioè allargamento, l’assistere nella totale confusione alla perdita di uno dei suoi membri maggiori fa davvero male al disegno comunitario. Ci vorranno anni e grande coraggio per uscire dal tunnel in cui ci ha condotto, per insipienza politica, Londra.
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