Lo spunto
Da credente, ma soprattutto da vecchio operatore sociale, ho assistito con grande emozione all’originale Via Crucis del Venerdì Santo. A parte il senso di deserto che piazza San Pietro offre quando è priva di fedeli, la coreografia naturale dell’atrio della basilica più bella del mondo ha rappresentato, pur nella sua semplicità, il vero dramma della Via Crucis.
Il commento da credente evidentemente è facile, ma a me soprattutto preme sottolineare il grande significato sociale e anche politico dei commenti alle 14 Stazioni della Via Crucis. Le prime stazioni, ove il problema riguardava la famiglia con i minori, i drammi dell’incomprensione coniugale, il problema della tossicodipendenza, l’abbandono delle giovani donne e il loro sfruttamento unitamente ai delitti più gravi descritti direttamente dagli stessi ergastolani, hanno fatto riflettere sul lavoro del sociale che da una vita molti colleghi cercano di comprendere per le varie tristi difficoltà.
La scelta degli ultimi testimoni, operatori di fatto nelle carceri italiane, dagli assistenti spirituali ai volontari, ai magistrati e, non ultima, la testimonianza della guardia carceraria, hanno dimostrato come anche in carcere l’uomo deve essere visto non per i suoi delitti e colpe ma per il suo essere di persona con dignità.
Di particolare valore mi è parsa la testimonianza del prete accusato di molestie e assolto perché “il fatto non sussiste”, anche perché in questo settore la generalizzazione è molto facile.
Giustamente il Santo Padre ha ricordato i 60 sacerdoti morti nell’assistere le ultime ore dei colpiti dal coronavirus.
Da operatore sociale credo che le testimonianze rese in questa eccezionale Via Crucis debbano influire anche sull’attenzione del governo sul problema delle carceri e degli uomini e donne in esse ristretti. Bisogna ricordare che sotto la faccia magari da omicida di un uomo vi è sempre, come in tutti i casi di disagio, l’uomo con la sua dignità. Il rito del Venerdì Santo quest’anno è stato per me un duplice rinforzo non solo nella fede, ma anche nella convinzione che il credere nell’uomo sia l’unica cosa che un altro uomo deve e può fare. In questo senso la fede, oltre alle tecnologie, può essere di immenso aiuto.
Paolo Cavagnoli – Operatore sociale
Una piazza San Pietro deserta di fedeli, immensa e vuota, s’è riempita venerdì del dolore di una popolazione ormai vastissima nel mondo del “progresso”, quella dei carcerati. L’ha riunita papa Francesco, celebrando la Via Crucis che fa memoria del calvario, della morte di Gesù, della reclusione del suo corpo nel sepolcro, prima della resurrezione pasquale.
Mai quella piazza, per solito affollata di popolo, è apparsa specchio e concentrato di tante disperazioni nascoste, di sofferenze segrete, chiuse non solo in celle di prigionia, ma in case dove vive chi è “fuori”, chi resta. Gridava quella piazza nel silenzio, in quell’ora prima della notte.
Sembrava quasi che le colonne del Bernini si trasformassero a loro volta in braccia, pronte ad accogliere chi era stato giudicato, ritenuto colpevole condannato. I racconti di vita, nelle meditazioni della Via Crucis affidate a carcerati, parenti dei reclusi, giudici, assistenti e guardie che nel carcere vivono, hanno mostrato – fatto quasi entrare nelle pelle di chi seguiva, sia pure davanti a schermi lontani – una realtà che viene solitamente rimossa, associata spesso ad una giusta pena, ma che supera le riflessioni sulla giustizia e interroga profondamente il nostro vivere quotidiano. Sono riflessioni e dubbi che l’autore di questa lettera, Paolo Cavagnoli, conosce bene, non solo per il suo impegno di assistente sociale, ma perché iniziò la sua carriera, nel 1957, proprio in quella “Casa di correzione” che era la Piccola Opera di Levico, destinata a tutti “i piccoli delinquenti” (si chiamavano così) del Triveneto. E fra loro c’era anche qualche omicida.
Dalle testimonianze è emerso, infatti, come il carcere diventi punizione, forse più ancora che per il colpevole e condannato, per chi resta formalmente libero ma di fatto imprigionato nello stesso destino, per parenti, mogli e mariti, figli che pur hanno amato, per chi sorveglia e assiste. Chi è rinchiuso può diventare ancora più “cattivo” e chi è fuori disperato. E l’assistenza verso il riscatto non basta sia professionale, ma deve farsi carico di tutte le luci e le tenebre che l’umanità di una persona dentro di sé sempre nasconde.
La toccante, e tragica, testimonianza-confessione della figlia dell’ergastolano ha mostrato che la vera vittima del carcere al padre, delle colpe del padre, è lei, con la sua vita a pezzi. Sono cose su cui riflettere e su cui pregare, perché è anche emerso dalla Via Crucis che la preghiera non è tanto chiedere una grazia, ma rendersi conto del male che si è fatto, del bene che ancora si vuole, della speranza di una redenzione.
La Via Crucis ha mostrato un’altra cosa. In questi giorni le città italiane sono vuote e le carceri piene, sovraffollate. Vuote, strade e piazze mostrano tutta la bellezza che ha animato chi le ha disegnate, costruite, riempite di attività. Mostrano tutta la bellezza possibile di un Paese come l’Italia, se la gente tornasse a viverlo volendosi più bene, con più giustizia, senza prepotenze e delitti. Sono anche quelle strade vuote una preghiera.
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