Fra i botti di fine anno c‘è anche la botta di denaro necessario per le crisi aziendali più spinose, essendo tornata in auge l’ipotesi del coinvolgimento di capitale pubblico. Lo Stato-imprenditore potrebbe entrare nell’ex Ilva «per fare di Taranto il polo siderurgico all’avanguardia nel mondo» (dice il premier Conte), nella Popolare di Bari per trasformarla in Banca d’investimento per il Sud (decreto-legge 142/2019) e nella new.co di Alitalia. Ciò per tutelare salute, lavoro, produzioni strategiche, servizi nevralgici e risparmio. È spontaneo rapportare l’impegno diretto dello Stato, con i suoi evidenti rischi, all’inversa direzione di marcia che negli anni Novanta portò al declino delle partecipazioni statali e alla stagione delle grandi privatizzazioni.
L’avvio di queste ultime – ricorda il dg di Assonime, Stefano Micossi (2008) – «fu imposto dal grave deterioramento dei conti delle aziende a partecipazione statale, soprattutto l’IRI e l’EFIM, in una fase in cui anche i conti dello Stato erano in condizioni non più sostenibili, dopo oltre un decennio di elevati disavanzi».
Parole dense d’attualità. All’epoca, con le cessioni di IMI, INA, Comit, Credit, Banco di Roma, Aeroporti di Roma, Telecom, BNL, parte del capitale di ENI ed ENEL, Autostrade e altre, lo Stato fece cassa (oltre 121 miliardi di euro nel periodo 1993-2005, undici punti di PIL) e sospinse le imprese «nella quasi totalità dei casi all’aumento dell’efficienza» allargando il mercato di borsa. Fu un caso studiato a livello internazionale, inferiore per dimensione di vendite soltanto al Giappone e al Regno Unito. Con le rose non mancarono però le spine. Fra queste l’acquisizione del controllo con debiti da parte di grandi gruppi industriali, a discapito del modello di public company; le limitazioni alla concorrenza nei settori del credito e dei servizi di pubblica utilità, che scaricano inefficienza su costi e tariffe; i prezzi di cessione degli asset, «da svendita», secondo taluni.
Fatto sta che dopo quell’exploit il processo subì un vistoso rallentamento; ma non per questo la presenza di capitale pubblico nelle imprese è una rarità. Permane oggi una miriade di partecipazioni di svariata natura, benché il Testo Unico sulle società partecipate (2016) le vieti, se non «strettamente necessarie» alle finalità istituzionali (peraltro con un’ambigua serie di deroghe), per ridurne il numero, contenere la spesa e non spiazzare il mercato. Secondo la revisione straordinaria curata dal MEF (2019), oltre 8 mila amministrazioni, fra centrali e locali, detengono ben 32.427 partecipazioni societarie, delle quali 7.845 da cedere o razionalizzare.
Questo è lo scenario, su cui incombono due tendenze opposte, ugualmente pericolose: da un lato, un’ostilità preconcetta (che non si ritrova in altri Paesi) nei confronti del «pubblico», guardato con sospetto, e quindi da evitare; dall’altro, un’eccessiva propensione ad avvalersi di società partecipate, con relative scorciatoie su spese, controlli e organizzazione. La scelta di intervenire con capitale pubblico andrebbe quindi affrontata senza schermature ideologiche, alla larga da questi estremi, valutando «le ragioni e le finalità che giustificano tale scelta, anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria» nonché la «compatibilità con la disciplina europea in materia di aiuti di Stato», come prescrive il Testo Unico. Come spesso avviene, la strada giusta è tracciata nella lettera e nello spirito della legge.
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