Fa presto il ministro Gualtieri a dire che l’assalto alla diligenza con un mare di emendamenti è un rituale di maniera in ogni dibattito sulle leggi di bilancio. Da studioso di storia quale era in origine il ministro dell’Economia sa che è sempre stato così, ma sorvola sul fatto che oggi ci sono varianti che dovrebbero preoccupare e che non sono affatto normali. Di solito gli emendamenti che arrivano dalle fila della maggioranza (quelli che vengono dall’opposizione appartengono all’esercizio legittimo del suo mestiere) appartengono all’azione di limitate lobby che trovano voce attraverso qualche parlamentare che vuole mettersi in luce e guadagnare un po’ di futuri voti per la sua rielezione: riguardano in genere questioni marginali se non di dettaglio. Oggi gli emendamenti vengono dai vertici dei partiti che compongono la maggioranza di governo e mettono in discussione accordi che, almeno in teoria, si erano raggiunti in sede di Consiglio dei ministri e che avrebbero riguardato questioni cardine.
Ma c’è di più. Normalmente la marea di emendamenti che si presenta in queste circostanze viene tranquillamente cassata dal governo che non esita a ricorrere al voto di fiducia per sbarazzarsi di queste fastidiose punture di spillo. Oggi invece il governo si dichiara disposto ad ascoltare con interesse le obiezioni, anzi afferma di essere pronto in più di un caso a rivedere quel che aveva messo nero su bianco nel suo disegno di legge. La spiegazione è ovviamente nobile: rispetto per la volontà del parlamento, organo sovrano. Peccato che questa ragione se fosse così forte avrebbe dovuto orientare l’azione anche nei casi precedenti, quando ci si è comportati in tutt’altro modo.
La spiegazione dell’anomalia è banale: questo governo non ha alcuna autorevolezza che gli consenta di imporsi ai rissosi componenti della sua maggioranza ciascuno dei quali è in teoria capace di buttarlo all’aria. In teoria, ma non in pratica, perché siamo in sessione di bilancio e una caduta del governo comporterebbe l’esercizio finanziario provvisorio, cosa che avrebbe effetti assai pesanti, particolarmente ora con due emergenze aperte come il caso Ilva (per non dire di Alitalia) e le conseguenze dell’ondata eccezionale di maltempo. Così ci si trova nella bizzarra situazione per cui sia il governo che i partiti non possono rompere, ma nemmeno fare pace, senza che ci sia modo di costringerli a gestire questo passaggio con un minimo di razionalità.
Non è una situazione che possa aiutare la tenuta del quadro messo in piedi con l’accordo giallorosso, e infatti fioccano le scommesse su quando il governo salterà definitivamente: già a gennaio una volta approvata la finanziaria, o a febbraio chiuso il capitolo delle elezioni in Emilia e Calabria? O addirittura un po’ più in là, in primavera, ma non troppo avanti, perché bisogna avere il tempo di far votare in modo che poi si possa avere un governo nel pieno delle sue capacità prima che in autunno si apra il percorso per la nuova legge finanziaria? Le variabili sono molte. Alcuni pensano che per esempio una caduta del governo Conte potrebbe non comportare uno scioglimento della legislatura, ma solo un diverso esecutivo: possibile, ma francamente molto, ma molto difficile. Poi c’è il tema di come eventualmente si voterà: già comunque con la cospicua riduzione dei seggi parlamentari (un terremoto in termini di geografia politica) e dunque con una qualche nuova legge elettorale (su cui siamo lontani da un accordo fra le forze politiche), oppure addirittura con la legge attuale e con l’attuale numero di parlamentari se andrà a buon fine la raccolta di firme di senatori per chiedere il referendum confermativo sulla riforma (al momento mancano in Senato una quindicina di firme per raggiungere il quorum).
In un contesto del genere non ci si possono aspettare mesi tranquilli. Il fatto è che la situazione non è di quelle normali e i partiti, tutti, sono in estrema fibrillazione. Lo si è visto anche nella kermesse del PD a Bologna. Nonostante Zingaretti passasse per un politico riflessivo, lo si è visto cadere vittima del richiamo al sinistrismo come risposta al salvinismo: una malattia infantile di tutte le sinistre quando vedono messo in crisi il loro tradizionale controllo di vasti settori dell’elettorato (vedere Corbyn in Gran Bretagna o la SPD in Germania).
E’ una polarizzazione radicaleggiante che si porterà dietro un aumento della confusione nell’opinione pubblica, ovvero le condizioni più propizie per l’azione delle destre.
Lascia una recensione