Sarebbe dovuto uscire in sala il 9 aprile, per Pasqua, La vita nascosta di Terrence Malick, dopo essere passato in concorso all’ultimo Cannes (dove ha vinto il premio della giuria ecumenica) ed essere stato presentato in anteprima nazionale, al Trieste Film Festival, lo scorso gennaio. Ora invece rischia di restare ancora nascosto, come capitò al protagonista storico a cui il film rende testimonianza. Basato sulla corrispondenza tra Franz e Franziska Jägerstätter, l’ultima opera di Malick prova con la vita del contadino austriaco che disse di no ad Hitler, ciò che George Eliot scrisse a conclusione del romanzo Middlemarch: “Il bene crescente del mondo è parzialmente dipendente da atti ignorati dalla storia; e se le cose non vanno così male per te e per me come avrebbe potuto essere, si deve in parte al numero di persone che vissero fedelmente una vita nascosta, e riposano in tombe dimenticate”.
Il regista americano de La sottile linea rossa ma anche di The New World-Il nuovo mondo e The Tree of Life, non rinuncia a mettere in scena vasti e sconfinati paesaggi, con la solita enfasi a dir poco panteista, in parte girati in Alto Adige, tra Chiusa e San Candido, la val Casies e le cascate di Tures, malga Fane e castel Velturno, per citare alcune location (grazie alla collaborazione dell’Idm Film Fund&Commission, in pratica la Film Commission altoatesina). Dentro questa cornice ambientale, lungo le 2 ore e 53 minuti della “pellicola” fa uscire dal sepolcro la storia, tragica, del contadino austriaco Franz Jägerstätter (interpretato da August Diehl, Il giovane Marx) che in nome della sua fede cristiana si rifiutò di giurare fedeltà ad Hitler, identificato come il male assoluto, e quindi di andare in guerra (la Seconda mondiale). Dopo un lungo periodo passato in galera, tra soprusi e botte, venne ghigliottinato il 9 agosto 1943 a Brandeburgo sulla Havel.
A nulla valsero le esortazioni del suo avvocato a firmare quel pezzo di carta che avrebbe riconsegnato a Jägerstätter la libertà, e alla famiglia, alla moglie e alle tre figlie piccole, un marito e un padre. Ma neanche il colloquio “privato” con il giudice del tribunale (che lo condannò a morte), ruolo ricoperto da Bruno Ganz qui alla sua ultima prova d’attore (tormentata e misurata), prima della scomparsa. Neppure la Chiesa, nella figura del vescovo di riferimento, viene incontro ai tormenti del contadino di Sankt Radegund, ricordandogli invece i suoi doveri nei confronti della “Patria” (fortunatamente nel corso del tempo qualcosa è cambiato…). I compaesani aderiscono in toto al credo nazista, al pensiero unico, escludono Franz (prima che venga arrestato) ma anche l’intera famiglia del contadino dalla vita sociale e lavorativa. E’ un ripudio totale, la messa ai margini del diverso. Ed è una situazione che non può non riportarci all’oggi, ai sentimenti d’odio che vengono fomentati ormai da tempo, e non solo in Italia, nei confronti di chi arriva da fuori, percepito come “nemico e invasore” ma anche di chi privilegia il confronto rispetto allo scontro.
Nel catalogo del festival giuliano, interviene il produttore Grant Hill (il regista è stato sempre parco di dichiarazioni e interviste). “E’ una straordinaria storia d’amore – scrive – che analizza le reazioni e le motivazioni di un uomo e quanto è disposto a fare pur di mantenere fede alla propria coscienza e alle proprie convinzioni. In definitiva è una storia senza tempo sull’amore, la devozione e il perdono.
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