Il titolo italiano, Cattive acque, a prima vista non rende ciò che l’originale Dark Waters comunica. Quell’oscurità, insidiosa e pervasiva di un intero sistema socio-economico, che avvelena nel momento in cui porta il benessere ad una comunità. E per questo può farlo impunemente.
La comunità in questione è Parkersburg, West Virginia, dove l’azienda chimica DuPont ha uno stabilimento grande 35 volte la superficie del Pentagono. La DuPont produce teflon e per farlo si serve di una sostanza che nei documenti compare sotto una sigla misteriosa – PFOA – di cui nessuno sembra sapere nulla. L’unico interessato a capirci qualcosa è un contadino, Wilbur Tennant, che vede ammalarsi, impazzire e poi morire le proprie vacche, senza poter far altro che bruciarle e tumularle nei propri campi, perché i veterinari non vogliono venire a vedere, e così le autorità deputate. Tennant allora si rivolge ad un avvocato di Cincinnati (Ohio), di nome Rob Bilott esperto di diritto ambientale, che però agisce in difesa delle aziende chimiche. Tuttavia il legame con Parkersburg e la sua infanzia lo inducono ad andare a vedere, e ciò che vede lo spinge ad agire…
Inizia così quello che il cinema americano ci ha già raccontato in molti legal-drama, in cui tocca al singolo cittadino sollevare il tappeto che copre i crimini delle corporations ai danni della salute dei cittadini, e dare battaglia mettendo a repentaglio carriera, famiglia e vita. Silkwood (1983), Insider (1999), Erin Brockovich (2000), sono alcuni di questi film che raccontano storie vere di battaglie tra David e Golia dell’era industriale capitalista.
Cattive Acque scoperchia l’ultima malefatta in ordine di tempo, quella della DuPont, appunto, che scaricava in acqua i resti di lavorazione dell’acido perfluoroottanoico (PFOA) pur sapendo che il suo accumulo nell’organismo umano avrebbe causato cancri e malformazioni genetiche nelle persone. Il film diretto da Todd Haynes parte dall’articolo di Nathaniel Rich apparso sul New York Time Magazine a inizio 2016 e ricostruisce la strada percorsa da Rob Bilott in 20 anni di indagini e di azioni legali (tanto è durato il suo sforzo e non è ancora concluso), sottolineando l’isolamento dell’uomo rispetto al sistema costruito sul profitto, dove lo Stato delega all’industriale la denuncia del rischio ambientale e perfino i danneggiati si schierano dalla sua parte. Mark Ruffalo, nei panni di Bilott, conferisce una cifra particolarmente umana e anticinematografica al suo “uomo comune” che lo rende al tempo stesso più eroico e più vicino alla nostra realtà.
L’oscurità fuoriesce dallo schermo e si mescola alla nostra quotidianità sempre più modellata sullo stesso sistema di profitto sottratto al controllo. D’altronde il teflon si produce anche qui e la contaminazione della falda freatica da sostanze perfluoroalchiliche è una realtà nel vicino Veneto, ma non solo. Così un legal diventa un monito sociale e personale che invita a riflettere sull’urgenza di cambiare il sistema o prepararsi a diventare Rob Bilott.
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