Il bisogno di felicità e lo sguardo di chi è beato

È una domanda che spiazza. Possibilmente da non fare, in particolare in certe circostanze: “Sei felice?”.
Imbarazzante, ingenua, provocatoria. Meglio lasciar perdere. Eppure in giro si avverte attraverso mille segnali il forte bisogno di felicità.
Si moltiplicano le proposte, dai corsi universitari alle sedute di benessere, ognuna con la sua filosofia, il suo metodo, persino gli esercizi. Numerosi sono gli studi in ambito scientifico che indagano le relazioni tra felicità ed economia, salute, società, successo. Lei rimane un mistero. Difficile trovare delle corrispondenze e la vita quotidiana continuamente ce lo conferma.
Non è la ricchezza a procurare felicità, almeno non del tutto, né il successo o la popolarità. Ci sono ricchi e famosi molto infelici e persone ammalate o povere piene di coraggio e di gioia di vivere.
Il cristianesimo avrebbe la sua da dire in un contesto culturale che tende comunque a far concludere che la felicità sia determinata in gran parte da situazioni esterne e che felici possono esserlo davvero pochi e per poco tempo.
Nelle beatitudini, che riascolteremo nelle chiese anche il prossimo primo novembre, ci viene offerta una prospettiva nettamente controcorrente e anche difficile da capire. Le Beatitudini ci dicono che la felicità si colloca in un orizzonte e non teme la sofferenza.
Beato, felice, non è solo chi ottiene quello che desidera, ma chi sa dove sta andando, chi riesce a sollevare lo sguardo dal suo stato di sofferenza. Potrebbe incrociare lo sguardo di Cristo, il primo, l’unico vero Beato.
Felice è chi scopre perché o per chi vive, soffre e muore. Felice è chi, impegnato nel dono di sé agli altri, nel suo lavoro, nelle sue relazioni, quasi non si accorge di esserlo. Felix era l’attributo che gli antichi utilizzavano per elogiare un terreno fecondo.
Felice è chi è generativo anche solo perché offre al Padre tutto quello che vive, anche immobile in un letto di ospedale o dimenticato e solo. Ma sa come funzionano i terreni fecondi. Hanno bisogno di sole, acqua, silenzio e di semi che si lasciano trasformare.
Kierkegaard diceva che la porta della felicità si apre solo verso l’esterno. Felice è chi si sa dare delle risposte, non solo chi cerca e persegue un obiettivo.
I nostri figli hanno bisogno di capire questo: tutto può avere un senso, anche la fatica, un voto negativo, una malattia inaspettata, una relazione difficile. È il senso che siamo chiamati a intravedere dentro quello che ci accade che ci ridona gioia di vivere.
Viktor Frankl e il suo best seller Uno psicologo nei lager ce lo testimonia in modo molto convincente. Ma come dirglielo? Proponendo loro di incontrare delle persone felici dentro la sofferenza, i miti, i poveri in spirito, i perseguitati a causa della giustizia, i santi.
Perché beati e santi, come dice Papa Francesco, sono sinonimi. Ce ne sono tantissimi, basta andarli a cercare. Basta dar loro voce.
Forse anche noi adulti abbiamo bisogno di vedere nel volto dei santi di oggi e di ieri che essere nella gioia è possibile proprio dentro la sofferenza e la fragilità che la vita inevitabilmente, in un momento o in un altro, ci riserva.
Forse abbiamo bisogno di ricevere quella misteriosa e divina gioia lasciandoci guardare e incontrare dal Beato Crocifisso Risorto. I sacramenti possono diventare una medicina e la gioia ritrovata e ricevuta diventa credibile.
Chiara Gubert

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