Tanti valori cantati per anni in piazza nella Festa del Lavoro si sono materializzati in questi due mesi di clausura: poter proseguire il lavoro (per chi può farlo in sicurezza o in forma “agile” tra le mura domestiche) ci ha confermato quanto esso non sia soltanto reddito, ma anche medicina per il benessere personale e risorsa per l’intera comunità (non a caso abbiamo applaudito servizi ora “riscoperti” come quello degli operatori ecologici). E ci ha mostrato – attraverso forme creative di nuove filiere – la potenziale capacità di fare squadra anche nell’affrontare shock economici così improvvisi.
Ma l’urgenza ora è di “farsi carico – come ha indicato l’Arcivescovo Lauro domenica scorsa – di chi vede con preoccupazione il futuro, temendo di perdere il proprio posto di lavoro o di non poterlo più offrire ad altri”. E sono davvero tanti a rischiare: piccoli e medi imprenditori che si sono indebitati per investire, ma ora si ritrovano “chiusi”; lavoratori dipendenti (tanto più se precari) nei settori rallentati dal Covid come i trasporti, il turismo di massa, la ristorazione, i servizi alla persona; imprese di privato-sociale che operano in ambito educativo e assistenziale – le scuole paritarie, le cooperative sociali, le residenze sanitarie – laddove la convivenza con il virus minaccia lo stesso lavoratore. Ne faranno a lungo memoria le infezioni contratte da chi opera negli ospedali.
Il governo Conte, che ha affrontato con prudente equilibrio (ma non senza errori) la prima fase di quest’imprevedibile crisi epocale, è chiamato a tendere ad un modello economico nuovo, che sappia sì produrre beni e lavoro, ma nei rigorosi limiti della sostenibilità. Quella che ricomprende il rispetto ambientale, le condizioni di lavoro (vedi la regolarizzazione dei braccianti stranieri, invocata dal Papa in una lettera ai sindacati), il dovere prioritario dell’igiene, il rapporto tra tempi di lavoro e tempi di cura per i familiari.
“Abbiamo bisogno di un’economia – scandiscono a proposito i vescovi nel loro messaggio del Primo Maggio – che metta al centro la persona, la dignità del lavoratore e sappia mettersi in sintonia con l’ambiente naturale senza violentarlo, nell’ottica di uno sviluppo sostenibile”.
La Provincia di Trento, oltre ad anticipare sul tempo le “aperture”, dovrebbe e potrebbe essere un laboratorio locale dell’economia rilanciata nel post – Covid. Alla Giunta Fugatti, stremata da un’emergenza logorante e appesantita da alcuni passi falsi, è richiesto ancora di saper programmare le scelte economiche senza paraocchi (accettando il contributo di tutto il Consiglio provinciale) e utilizzando al meglio gli spazi normativi e finanziari concessi dalla nostra Autonomia. Si deve andare oltre il Fondo Ripresa e i bonus “aumentati” per rimettere in moto le aziende in una logica sostenibile, non di profitto individuale che favorisce la logica del “si salvi chi può”.
Indichiamo tre esempi: cogliere l’occasione per ridisegnare un sistema turistico (vedi la discussa riforma delle APT) che non solo accalappi clienti ma possa “ricadere” sulle piccole e virtuose comunità locali; programmare nella frutticoltura un impiego di manodopera stagionale più solidale, attento alle categorie deboli (la proposta dell’assessore Zanotelli va attuata con cautela); intervenire con strumenti più robusti per sostenere i genitori nella cura dei figli piccoli, rimasti a casa da scuola. Un fenomeno che il Forum delle famiglia ha sottoposto come urgenza al governo nazionale ma che a livello locale dovrebbe poter trovare risposte esemplari.
Non siano solo i politici – tanto meno gli epidemiologi o i tecnocrati – a metter mano a questa riprogettazione: è compito anche di noi cittadini indicare dove “piantare la vigna” dopo il diluvio, trascinando i nostri amministratori con comportamenti coerenti e vincolando il mercato con le scelte del portafoglio, gli acquisti “giusti”: abbiamo visto in quarantena come sia possibile modificare il bilancio familiare, quando siamo “costretti” a farlo.
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