La violenza che nasce dallo smarrimento: Parasite trionfa agli Oscar 2020

Una scena di Parasite

Agli Oscar 2020 nella notte di domenica 10 febbraio, a Los Angeles, trionfa Parasite del sudcoreano Bong Joon Ho, un film potente e complessoPer la prima volta, una produzione in lingua non inglese vince il premio per il miglior film. Per trovare qualcosa di simile dobbiamo risalire al 2012, quando il francese The Artist – che però era un film muto – ottenne il massimo riconoscimento dell’Academy.

Parasite è la prima Palma d’Oro (ottenuta al Festival di Cannes nel maggio 2019) a vincere come miglior film dai tempi di Marty, vita di un timido (1956). In bacheca altri tre riconoscimenti: scontato quello per il miglior film internazionale, meno attesi gli allori per la sceneggiatura originale e la regia a Bong Joon-ho, primo cineasta sudcoreano a vincere. (cinematografo)

La storia è quella di una famiglia (padre, madre, figlio, figlia) che vive di lavori precari in un misero appartamento nel seminterrato del palazzo. Un giorno il ragazzo, falsificando diploma e identità, si fa passare per il tutor privato dell’erede di una ricchissima famiglia. Il piano dovrebbe risolvere i problemi dei quattro…

Arrivato al Festival di Cannes 2019 da outsider, Parasite ne è uscito con il premio maggiore, la Palma d’oro, assegnata per aver avuto il coraggio di affrontare un argomento oggi fortemente trascurato: la lotta di classe. In effetti il tema sembra ormai passato in secondo piano, e non per il venir meno dei motivi che lo spingevano, ma perché la loro soluzione è ormai delegata ad una conflittualità tendente al compromesso. Se questo è vero per l’Europa e il mondo anglosassone, lo stesso non vale per l’estremo oriente, dove invece i conflitti sociali sono visti in modo assai severo. Il cinema della Corea del Sud poi ha codificato negli anni una narrazione degli avvenimenti sociali tutta rivolta a descriverne gli esiti cattivi, malvagi e segnati da una violenza imprevedibile. Così questo Parasite, confermando la forte differenza tra il cinema a noi più vicino e quello invece più lontano, ci porta in una dimensione storica, etica e morale che non guarda in faccia a nessuno e lavora su una violenza segnale di uno smarrimento ideologico e valoriale profondo. Ad equilibrare la visione il regista ha messo in campo uno stile di grande maestria visionaria con momenti onirici tra realtà e finzione. Forse per questo il film ha ricevuto il primo premio a Cannes che trova conferma ora in quello di Los Angeles.

Complessa e problematica, l’opera di Bong Joon Ho (Memories of Murder, Okja e Snowpiercer) richiede un pubblico predisposto ad una visione non facile con un finale dilaniato da un conflitto aspro e senza pietà. Da affidare a dibattiti.

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