Il premier Conte ostenta sicurezza sulla tenuta del governo al di là del risultato delle elezioni in Emilia Romagna e Calabria. Lo stesso fanno Zingaretti e i maggiorenti del PD, ma sono affermazioni scaramantiche, perché prendono in considerazione solo una metà del problema.
Se infatti fosse solo questione di sapere se in Emilia vinceranno Bonaccini o la sua avversaria leghista, si potrebbe anche immaginare che comunque vada il governo può continuare. Invece il problema sta nell’altra metà: come usciranno i partiti da quella prova elettorale a prescindere da chi sarà il futuro presidente della regione?
L’incognita maggiore riguarda M5S. Se davvero ci fosse in entrambe le regioni una debacle, cioè anche solo un ulteriore dimezzamento della quota che gli viene attribuita dai sondaggi nazionali (un 16-17%), è difficile credere che non si accentuerebbe la crisi interna al movimento.
Se si pensa a quanto è stato complicato governare sin qui con i Cinque Stelle presi dalle difficoltà passate, è facile concludere che governare con loro in piena confusione da insuccesso post-elettorale sarà un’impresa impossibile.
Tuttavia non c’è da prendere in considerazione soltanto la ricaduta dei risultati elettorali su M5S, perché anche il PD sarà chiamato a meditare su quanto raccoglierà in quelle urne. La questione non riguarda solo la tenuta o meno delle sue liste, ma anche il successo o meno delle liste fiancheggiatrici che ha incentivato a presentarsi. Se per ipotesi quelle liste anziché “allargare” il consenso del partito in realtà gliene sottraessero, anche Zingaretti e l’attuale dirigenza dovrebbero porsi qualche problema. La scelta del “campo largo” è al momento più quella dell’ammucchiata anti Salvini che un vero progetto politico. Zingaretti per la verità l’ha intuito proponendo una rimodulazione del partito che suona come l’offerta ad una parte almeno di queste forze (quello più decisamente “civiche”) di uno spazio “all’interno” garantendo loro una qualche tutela rispetto allo strapotere del professionismo politico legato alle attuali correnti.
Anche una scelta di questo genere comporta però degli scossoni riguardo alla presenza del PD nel governo Conte, presenza che al momento è tutta nelle mani del professionismo politico: non riusciamo a pensare che questo ceto si arrenderà facilmente all’idea di essere ridimensionato (per molti è un problema di disoccupazione, senza ormai poter contare più sulle ricche pensioni parlamentari).
Va tenuta in conto anche un’altra contingenza su cui ci sembra troppi commentatori sorvolino. Le urne di gennaio non chiudono la partita dei confronti elettorali. Fra maggio e giugno si voterà in altre sei regioni (Toscana, Liguria, Veneto, Puglia, Campania e Marche) nonché in più di mille comuni (fra cui Trento). I partiti non potranno fare a meno di confrontarsi anche con queste scadenze, che metteranno alla prova non solo il centrodestra, ma anche M5S e PD. Questi due le affronteranno dopo essere passati in marzo per le forche caudine di un confronto interno a tutto campo: gli stati generali per i Cinque Stelle e il congresso per il PD.
Possiamo immaginare che con le esigenze di serrare le fila in vista di un ulteriore test che a questo punto certificherà in maniera difficilmente contestabile lo stato del consenso alle forze politiche il governo possa continuare a tirare a campare? E lo diciamo senza tirare in ballo possibili prossimi terremoti parlamentari che pure sono accreditati da voci di corridoio degli ambienti politici, cose come un consistente numero di grillini che passano nelle fila della Lega, o la nascita, sempre dalla diaspora grillina, di un partito ecologista che farebbe capo all’ex ministro Fioramonti. Sarebbero nuove dislocazioni che potrebbero portare alla richiesta della verifica parlamentare sulla tenuta o meno della maggioranza di governo, con tutti i rischi di manovre che comporta questo genere di passaggi.
Può davvero il premier Conte mettere un freno a tutto questo portando la sua maggioranza ad una verifica a fine mese che si concluda con il consenso di tutti alla stesura di una agenda delle cose da fare fino alla scadenza della legislatura nel 2023? Fra gli osservatori non ci crede nessuno e del resto fino ad ora Conte non è mai riuscito a ricondurre alla ragione i Cinque Stelle: al massimo ha pasticciato con le soluzioni per i temi aperti in modo da limitarsi a dar loro ragione a metà. Un po’ poco coi problemi che abbiamo di fronte.
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