L’infermiera in rianimazione: “Travolti da qualcosa di più grande di noi”

Irene, infermiera in rianimazione a Rovereto

I turni sono incessanti e l’orario di lavoro si è fatto indefinito per chi, come Irene, è infermiera al reparto di rianimazione dell’ospedale “Santa Maria del Carmine” di Rovereto, sotto stress come in tanti altri presidi ospedalieri del Paese. Per sentirla con calma, attendiamo il giorno di meritato riposo, fondamentale per ricaricare le energie e ripartire soltanto poche ore dopo, verso quella trincea dove da circa un mese ormai si combatte il coronavirus, cercando di salvare quante più vite umane possibile.

Il tono di voce è determinato e forte nel descrivere un quadro sempre più complesso, giorno dopo giorno: “Nel nostro reparto abbiamo dovuto aumentare i posti letto da 8 a 18, sovraffollando la rianimazione e allargandoci nel blocco operatorio man mano che sono arrivati i ricoveri. La situazione è pesante su tutti i fronti, a partire dalla bardatura, camici e sovracamici da indossare: con tre paia di guanti non si ha molta sensibilità tattile, prendere in mano una fialetta diventa difficile….”. I pazienti sono tanti, tutti complessi: “Il carico di lavoro è pesante. Pensate ad esempio che una terapia importante per chi è ricoverato è la pronazione per circa 18 ore al giorno. Vuol dire che tutti i giorni i pazienti vanno girati e rigirati; solo questo è un lavoro faticoso che richiede tempo ed energia”.

Non meno duro l’impatto psicologico, emotivo: “Ci rendiamo conto di fare tanto ma non si sa dove si andrà a parare, e se solo ci si ferma un attimo a pensare a tutte le persone che sono ricoverate, sole e senza possibilità di ricevere visite, ti prende lo sgomento, ti nasce dentro una sorta di magone…”.

A Rovereto i pazienti in terapia intensiva sono stati finora in maggioranza uomini, anche giovani, a conferma della forte aggressività del virus, che sorprende pure Irene: “Non è reale l’idea che a rischio siano perlopiù gli anziani pluripatologici, almeno per noi. Vedere anche soggetti giovani e senza patologie di base presentare ora quadri di polmonite così avanzati e acuti ci fa molta impressione. Ma quello che ci scompensa di più è l’assenza di una terapia riconosciuta come veramente efficace: i farmaci utilizzati fino adesso se da una parte hanno dato dei miglioramenti, dall’altra hanno presentato controindicazioni e ci hanno costretti a bloccare la terapia, quindi anche quello che sembra poter essere uno spiraglio di luce dopo un po’ si spegne”.

I ricoverati arrivano in rianimazione già sedati ed intubati (“abbiamo bisogno di impostare un tipo di ventilazione completamente controllato dalla macchina”) per cui non c’è la possibilità di comunicare con loro in nessun modo, mentre i loro famigliari sono aggiornati quotidianamente al telefono dai medici, che dedicano due o tre ore a quest’importante relazione con chi è a casa. “Immagino che chi sta a casa vorrebbe essere costantemente aggiornato su come sta il proprio marito o il proprio figlio, ma purtroppo fare più di così è difficile”, racconta con grande empatia l’infermiera, facendoci tornare alla mente l’immagine del cappellano don Giuseppe Depetris, che nel numero scorso su queste pagine descriveva l’ospedale roveretano come “una grande nave sbattuta da onde sempre più forti, con un equipaggio eccezionale che tiene botta”.

“Mi ci riconosco – conferma Irene – aggiungo solo che si tratta di una nave ben compatta: siamo travolti da un qualcosa più grande di noi, ma sento che siamo veramente uniti nell’affrontarlo”. La forza del gruppo, il lavoro di squadra, il coordinamento delle caposala ed il sostegno reciproco tra colleghi sono per Irene il segreto per andare avanti nonostante tutto: “Certo, quando ho deciso di diventare infermiera non avrei messo in conto di trovarmi in una situazione così… ma fa parte del mio lavoro, che mi piace molto e quando il bisogno è tanto non ci si tira indietro. Per questo, io non mi sento per niente un eroe, quando tutto è iniziato noi eravamo semplicemente lì a lavorare e lì siamo rimasti. Penso piuttosto che gli eroi siano quelli che restano a casa, perché limitando la diffusione del contagio permettono a noi di non dover essere eroi. Io voglio essere una ragazza normale che fa l’infermiera e tornare al più presto a riabbracciare i miei genitori, e più le persone stanno a casa prima la situazione si risolverà”.

Non sarà eroismo ma poco ci manca, come conferma l’affetto di chi, da casa, riconosce il grande lavoro degli operatori sanitari con le più fantasiose iniziative e flash mob: “È tutto molto bello e ci aiuta molto. Io stessa sto facendo fatica a stare dietro a tutti i messaggi che ricevo, anche da persone che magari non sentivo da un po’ e che mi stanno dedicando un pensiero in questo momento particolare”, commenta Irene. Il suo pensiero è sempre rivolto alle persone ricoverate, anche quando proviamo ad approfondire quanto le sia di conforto la fede: “Finora abbiamo avuto un solo decesso, ma in quel momento, molto toccante, – racconta con voce rotta – ho realizzato come per questi pazienti la nostra presenza, anche silenziosa, può essere una vicinanza anche spirituale, con la preghiera, con dei piccoli gesti come il tocco, per quanto loro non se ne possano minimamente rendere conto. È la dignità della vita dell’uomo che va tutelata e quindi, nonostante le attività da fare siano tante, quando si riesce mi ritrovo ad essere loro vicina con una preghiera, con un pensiero per i loro cari e i loro famigliari; non che io non ne abbia bisogno, ma so per certo di avere tante persone che pregano per me, il loro sostegno io lo sento e lo posso toccare, i pazienti no. Per cui mi sento di dover essere più con loro che con me”

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