La montagna non può essere appiattita su una dimensione urbana. Agli Stati Generali deve rivendicare specificità, diversità e qualità
Lo spunto
Mentre a livello nazionale si sta chiudendo il percorso per arrivare nel primo autunno a una grande assemblea degli Stati Generali della Montagna, la Giunta provinciale di Trento ha aperto un analogo cantiere. Da due mesi nelle periferie del Trentino e a livello mediatico ci si confronta su questi Stati. Da una lettera inviata al presidente della Provincia Fugatti e da altri interventi sui giornali risulta però che in questa “operazione ascolto” (che riecheggia sia pur alla lontana quella lanciata dall’allora presidente della Provincia Flavio Mengoni negli anni Ottanta) non sono state molte le comunità di valle che hanno invitato anche le associazioni ambientali, molte delle quali hanno tradizioni storiche nel Trentino e possono riferirsi a battaglie importanti proprio a favore delle valli, delle loro popolazioni, della loro economia . Ognuno può avere le sue preferenze, ma i temi che hanno affrontato e affrontano sono reali. Solo nel Basso Sarca e in Val di Fiemme, e successivamente nell’Alta Valsugana Brenstol (tre ambiti su 15) si sono convocate le associazioni. Mi domando perché tante esclusioni.
Lettera Firmata
Il perché sta forse negli equivoci che circondano questa “operazione ascolto”, alla quale peraltro va augurato pieno successo, e la capacità di individuare davvero una prospettiva per le valli trentine, diventate ricche materialmente, ma al tempo stesso più povere, quanto a relazioni umane e voglia di futuro. Chi esamina un po’ il modo con cui questi “Stati Generali” sono stati preparati registra infatti due impressioni. Da un lato che alcuni poteri, noti a tutti, cerchino di indirizzarne qualche risultato, lasciando in silenzio chi potrebbe disturbare il manovratore. Dall’altro che si voglia evitare realisticamente, visto il rissoso clima della realtà provinciale, un dibattito ridotto a zuffa su orsi e lupi, presenze certo importanti, ma affrontabili con un po’ di buona volontà e di buon senso. Non è che le coppie non fanno figli perché ci sono gli orsi o i giovani laureati se ne vanno per paura dei lupi. Non è del resto la prima volta (!) che le associazioni ambientaliste e protezioniste, vengono emarginate e non giova quindi recriminare, ma piuttosto trarre dagli “Stati Generali” elementi e spunti per precisare la loro tradizione di civiltà e di cultura. Sono tante infatti le battaglie che in questi cinquant’anni hanno contribuito a salvare pezzi importanti di Trentino e delle sue valli, dal Gruppo di Brenta (che sarebbe finito massacrato se si fosse fatta la funivia e lo stradone già progettato in val Flavona) alla Val Genova, da Tovel agli stessi fondovalle che hanno pagato un costo così alto, non solo estetico, all’immobiliarismo.
La cultura ambientale trentina è poi stata determinante nella radicale scelta del primo Pup (quello di Kessler) che ha fermato la confusa “città lineare” che già si sviluppava fra Rovereto e Bolzano, lunga l’asta dell’Adige, per puntare invece sulla “città diffusa”, con servizi, lavoro, qualità della vita nelle valli, non solo nei centri maggiori. Un risultato raggiunto (e basta confrontare la situazione trentina con la montagna lombarda o piemontese) fino a quando le paratoie della cementificazione selvaggia si sono riaperte ed anche il Trentino è stato investito da una “capannizzazione” inutile, distruttiva per la sua immagine anche di mercato. Ne è venuta l’estensione di una “periferizzazione” che ha tolto fascino, specificità, occasioni differenziate di lavoro anche alle valli.
Cosa sono i paesi divenuti amalgami di case e capannoni, con nomi nuovi che neppure chi vi abita riconosce? A questo si aggiunge lo “tsunami” mediatico, la “rete” che ormai ingabbia anche le montagne, i paesi più isolati, con gli stessi identici messaggi con cui raggiunge le periferie metropolitane degradate. E ciò è avvenuto proprio mentre i capisaldi dei servizi “diffusi” venivano smantellati: via i tribunali, via gli ospedali, via le parrocchie, via i maestri (non studia più nessuno da maestro nelle valli?) appaltate le biblioteche, perfino le malghe. Ma la montagna, per sopravvivere, ha bisogno non solo di un senso di appartenenza specifico, ma di norme e regole specifiche. Oggi i giovani che se ne vanno, quelli “studiati” per primi, non lasciano le valli perché non hanno un lavoro, ma perché i lavori precari non consentono di costruire futuro. Vanno nella maggior parte dei casi a vivere peggio, da case in proprietà a periferie metropolitane, in camere d’affitto costosissime. Cercano, più che lavoro, motivazioni.
Che fare allora? Va ripristinata, a nostro avviso una continuità di presenze e competenze umane, di professionalità e di servizi nei paesi e nelle valli. E va posta fine alla sciagurata pratica degli appalti, generatori solo di precariato, di provvisorietà, di frustrazioni e rancori. Tornino i Comuni, gli Enti, a impegnarsi in prima persona. Occorre radicare il futuro (con i suoi problemi) alle persone, ripristinando elementi di confronto professionali e materiali: un giudice di pace, un maestro, una presenza di spiritualità e pastoralità … una manualità artigianale … i riferimenti di una comunità non possono essere solo l’ internet da cliccare. Costano queste presenze? Costano, ma meno dell’ennesima circonvallazione con telecamere (!) che trasforma i paesi in svincoli di periferia e induce a fuggire – come già osservava Flavio Faganello – non a fermarsi.
Occorre anche tornare ad una pacificazione, nel Trentino, fra valli e città. Averne esasperato l’antagonismo (per fini di consenso elettorale) è stato il più grande delitto contro il Trentino. Occorre ritrovare un terreno comune, dove lavorare insieme, con solidarietà. E su questa strada tutti – dagli operatori turistici alla Cooperazione, dalla scuola agli artigiani, dagli imprenditori ai lavoratori – potranno fare la loro parte.
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