Il primo dato su cui conviene riflettere è quello dell’alto astensionismo
Le elezioni in Sicilia non hanno sciolto affatto i nodi della situazione politica italiana, anche se molti si affannano a trarre da quanto è successo indicazioni per il futuro. Vediamo di addentrarci un po’ nel labirinto che ci sta davanti.
Il primo dato su cui conviene riflettere è quello dell’alto astensionismo che rimane costante: non solo in Sicilia, ma anche nel caso delle elezioni amministrative ad Ostia. Questo smentisce quanto continuano ad affermare molti politici: drammatizzando, insistendo sul ritorno alle presunte purezze ideologiche di destra o di sinistra, recupereremo l’elettorato che diserta le urne. Per ora almeno non è così e ciò significa che il campo rimane circoscritto a lotte fra gruppi piuttosto compatti e poco permeabili al confronto con gli altri. Non è una buona notizia, perché spinge tutti i partiti alla radicalizzazione intorno ai ceti del professionismo politico.
Il secondo dato è che c’è grande incertezza nei ceti dirigenti quanto alle scelte da fare fra i vari soggetti della competizione politica. La Sicilia è certo un caso particolare ed è inutile nasconderlo, ma se leggiamo i dati dell’isola nel quadro degli avvenimenti recenti (amministrative di giugno, referendum autonomisti) vediamo una ripresa della destra. Non è facilissimo capire il perché di questa svolta, ma c’è da pensare che nonostante tutto una parte non piccola dei gruppi dirigenti che influenzano l’opinione pubblica più di quanto non facciano i media si stia ritraendo dalla fiducia sin qui manifestata nel PD come perno della governabilità e preferisca tornare al corporativismo berlusconiano.
Si può cogliere anche un atteggiamento perplesso, ma aperturista verso i Cinque Stelle, che vengono considerati interessanti per una certa capacità che hanno di raccogliere il voto di protesta che sale da una quota non piccola della società. Se così non fosse sarebbe poco comprensibile lo spazio che si continua a dare ad esponenti pentastellati che, diciamoci la verità, non sono in grado di presentare più che fumisterie ideologiche.
Il problema del PD è solo in parte la sua presunta sconfitta in Sicilia. Su quel terreno esso correva perdente per tradizione e alla fine ha fatto lo stesso bottino elettorale che conseguì nel 2013 con la segreteria di Bersani. La sfida sulla sua sinistra ad opera di Mdp si è rivelata davvero una tigre di carta. Il vero problema che affligge Renzi e il suo partito è la sua incapacità di uscire dalla trappola del partito leaderistico col suo cerchio di fedelissimi con poco carisma per ritrovare un rapporto forte con le energie profonde del paese. Senza questo è condannato a restare impigliato a livello di immagine nella battaglia interna fra le sue componenti e negli attacchi strumentali degli scissionisti.
Il mito della “coalizione larga” è infatti solo un’arma polemica per le baruffe a sinistra, perché non c’è al momento alcuno spazio per una simile impresa. La Sicilia ha mostrato l’inconsistenza del partitino di Alfano che è riuscito a fare un flop in quella che doveva essere una sua roccaforte. Di conseguenza al momento le prospettive di alleanze ampie sono ridotte ad intese con formazioni nascenti (la presunta lista Bonino-Calenda e soci; il campo o campetto progressista di Pisapia se mai vedrà la luce) mentre la ripresa di un’intesa con Mdp appare sostanzialmente impossibile. Il partitello di Bersani e compagni pone la pregiudiziale di un’abiura preventiva a tutto quello che il governo PD ha fatto: cosa non solo difficile per evidenti ragioni, ma senza senso, perché ove il PD dichiarasse di avere sbagliato tutto non sarebbe certo in grado di mantenere quel livello di consenso che serve per contare. Né è immaginabile che Mdp gli porti in dote quella messe di voti che perderebbe, senza contare che anche in quel caso non ci sarebbero i numeri per diventare determinanti nella formazione del futuro governo.
Come si vede, la Sicilia conferma che il panorama politico italiano rimane inchiodato sulla estrema difficoltà di produrre un equilibrio ragionevole che consenta un contesto di governabilità. Sembra che a fronte di questo stia maturando l’idea di posporre la prova elettorale da marzo a maggio 2018. Sarebbe, francamente, la classica toppa peggiore del buco. Una legislatura che si stiracchi ulteriormente darebbe solo spazio alla radicalizzazione ulteriore delle posizioni e al trionfo di tutte le strategie populiste.
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