Insegnateci a contare bene i nostri giorni

Per entrare in questo appassionante 2016, che segna anche il novantesimo del nostro settimanale, abbiamo raccolto le voci di sette novantenni trentini, alzando un po' la media rispetto al monito della sapienza biblica: “I giorni dei nostri anni arrivano a settant'anni; per i più forti, a ottant'anni; e quel che ne fa l'orgoglio, non è che travaglio e vanità;perché passa presto, e noi ce ne voliam via”.

E' lo stesso salmo 90 (anche il numero c'azzecca!) a guidarci nella riflessione sul tempo che passa, sempre feconda attorno a Capodanno, con la raccomandazione forse più disattesa nella cultura della frenesia e del tutto-subito: “Insegnaci dunque a contare bene i nostri giorni,per acquistare un cuore saggio”.

La nostra epoca è attanagliata dal bisogno di rendere straordinario l'ordinario, di “bruciare” eventi memorabili a ritmi sempre più incalzanti, ben venga la confidenza più ricorrente affidataci dai nostri saggi: vivere ogni ora del tempo affidatoci, anche quello della vecchiaia, con paziente impegno, riconoscendovi un dono che può farsi dono agli altri.

Questa fiducia provvidenziale, che viene “prima dei fatti”, la ritrovo nella rubrica redatta con questo titolo su Avvenire ogni giorno da quel maestro di umanità che è Sergio Zavoli, pure ultranovantenne. E ripenso a quanto aveva detto nel 1997 in un'intervista con Piergiorgio Franceschini: “Non vivo con l'animo voltato indietro. Si vive in funzione di quel che dovrà avvenire. Un uomo è un uomo per il suo avvenire”, ed aveva aggiunto, sempre a braccio, con una delle sue immagini di poeta ormai maturo: “Come può il contadino rimpiangere l'aratro, se lui adesso usa il trattore? Capisco peraltro che c'è un passato che non è mai passato del tutto nella storia dell'uomo e dei popoli…”

Era venuto all'Arcivescovile su invito cortese del nostro direttore don Agostino Valentini per i 70 anni di Vita Trentina e – con i suoi modi signorili e la sua dizione da manuale – aveva accettato di confidare la sua laicissima ricerca, sempre inesausta di significati: “Nella vita c'è il tempo di far male, ma anche di ricredersi, il tempo di abbandonarsi a qualche egoismo e di impegnarsi per gli altri, il tempo di capire e di fraintendere, di vivere e di lasciarsi vivere”, aveva detto eccheggiando evidentemente il Qoelet. E ancora: “La vita è un contenitore dove c'è proprio di tutto, non è mai esemplare. Ma la prima cosa che mi sentirei di dire è che la vita deve essere vissuta. Impegnarsi, fino a poter dire con Ungaretti: “Che la morte mi colga vivo…”

Da qui l'invito a non sotterrare i talenti, a spenderli bene, perchè “la Grazia di Dio ci ha toccato tutti e ci abilita tutti”, proseguiva “il socialista di Dio” con accenti che rivelavano già la sua amicizia fraterna con la trentina Chiara Lubich (più volte citata in questi giorni da lui su Avvenire) e che anticipavano il sogno bergogliano sul popolo di Dio: “Una Chiesa povera e pugnace – concluse Sergio Zavoli a Trento in quel giorno di fine febbraio 1997 – non 'trionfante in terra, prima che nei cieli' come dicono i suoi detrattori, una Chiesa viandante non solo nei misteri dell'animo, ma anche nella materialità della Storia, dedita prima a soccorrere e poi a far proseliti, disposta alla provocazione e al sacrificio più che alla predica e al monito”.

Con gli auguri di un 2016 segnato dalla misericordia.

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