L’astensionismo è il vero problema e colpisce un po’ tutti, perché è un fenomeno di disaffezione da una politica che a molti appare troppo autoreferenziale
Valutare le elezioni regionali in termini di quasi vittoria o quasi sconfitta per i vari partiti (Lega esclusa) significa solo tirare l’acqua al proprio mulino. I paragoni con le Europee sono fuorvianti, perché quelle sono elezioni in cui chi vota (sempre la metà di quelli che hanno diritto) è disinteressato ai candidati e vota più che altro un simbolo (in quel caso la leadership di Renzi); quelli con le precedenti regionali hanno un significato relativo perché cinque anni fa c’era davvero un altro mondo.
La perdita di voti non interessa solo alcuni partiti, ma più o meno tutti, ovviamente in proporzione alla loro consistenza. In più una parte delle perdite è anche dovuta al fenomeno delle “liste civiche” che a volte sono semplicemente sistemi di clientela, a volte sono l’autonomizzazione di qualche leader locale dalle dinamiche del suo partito di riferimento.
L’astensionismo è il vero problema e, per quel che si capisce, colpisce un po’ tutti, perché è un fenomeno di disaffezione da una politica che a molti appare troppo autoreferenziale, sicché chiunque sia al potere viene percepito più o meno come la stessa cosa. Poi c’è un fenomeno più accentuato che in passato di “flussi” di voti da un partito all’altro. Anche in questo caso, basta vedere le analisi dell’Istituto Cattaneo, sono più dispersioni in molte direzioni che non passaggi dominati da scelte vetero-ideologiche (per esempio l’abbandono del PD da parte di elettori che non lo considerano più “abbastanza di sinistra” per passare a formazioni più radicali è abbastanza modesto).
Diciamo questo per spiegare che il problema di Renzi non è l’analisi di una presunta quasi sconfitta per fuga di voti o l’esaltazione comunque di una vittoria in termini di conquista del vertice delle regioni. La faccenda è ben diversa. Il suo problema è come governare un partito che in realtà, come è stato confermato dalle dinamiche di queste regionali, è fatto di tre partiti che convivono nella sola speranza che ciascuno ha di conquistare l’egemonia sugli altri due (se non addirittura di farli fuori).
Ovviamente c’è il partito “renziano” che è una federazione di politici che hanno compreso che non c’è futuro se non scommettendo sul cambio di passo. In cosa questo consista non è detto che siano tutti d’accordo, ma convergono sul fatto che Renzi ha una leadership effettiva su una parte almeno del paese e che al momento controlla le leve della politica nazionale. La debolezza di questo partito è sia la sua chiusura a livello di “cerchi magici” sia la mancanza di pazienza nel trasformare le intuizioni su quel che deve cambiare in percorsi faticosi ma controllabili che portino alla realizzazione del cambiamento.
Il secondo partito è quello degli “anti-renziani”. Anche qui una federazione di sensibilità e di ripicche, un coacervo di rincorsa al casting nei talk show e di nostalgie per il buon tempo andato. Lo tiene insieme solo l’illusione che la reazione corporativa alle innovazioni inevitabili giochi a suo favore e consenta alla fine di riguadagnare la guida del partito e i ruoli di governo (ma qui entriamo già nell’incerto, perché difficilmente proposte di quel tipo possono trovare il consenso necessario per governare una transizione così difficile). La sua debolezza è nel macchiavellismo un po’ sciocco del suo gioco politico: la rincorsa all’indebolimento parlamentare del governo facendosi portatori di pure istanze corporative, la mitizzazione delle proteste sociali, l’uso squilibrato delle opportunità offerte da dinamiche parlamentari dissestate (questo è stato il caso, eclatante, della iniziativa impropria e poco seria dell’on. Bindi).
Il vero problema è però costituito dal terzo partito, che è quello dei poteri locali. Questi hanno in realtà vinto o perso le elezioni regionali. Solo in Veneto c’era un candidato espressione di un certo renzismo, sia pure di risulta, ed è andata malissimo (perché il candidato non era all’altezza). Altrove, dove si è vinto (Toscana, Puglie, Campania, Marche, Umbria), ma anche dove si è perso (Liguria) i candidati erano espressione delle logiche locali della vecchia “ditta” (ma era stato così anche nelle precedenti regionali in Emilia-Romagna e Calabria).
Questi partiti locali non sono né veramente renziani, né veramente anti-renziani, ma proprio in questa ambiguità finiscono per non portare credibilità all’attuale leadership senza essere però in grado di sostituirla. Sono, se possiamo fare un’immagine un po’ audace, i baroni che vogliono togliere potere al re senza però poter aspirare a sostituirlo con uno di loro.
Renzi deve sistemare questo pasticcio dei tre partiti in competizione fra loro, senza finire vittima di uno di essi. Impresa certo non facile.
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