A guardarla con il filtro statistico, numeri alla mano, in “deflazione” ci è finita da tempo anche la Chiesa. Compresa quella trentina, più solida di tante altre, ma con dati di prospettiva da mettere comunque spalle al muro: fra dieci anni i preti attivi nella pastorale saranno una settantina, di età media sempre più elevata. Difficile immaginare, al pari, un’inversione di tendenza nel progressivo allontanamento dei fedeli praticanti. Che ne sarà dunque della presenza delle comunità cristiane sul territorio? E delle loro strutture, in molti casi sproporzionate alle reali esigenze e quindi oggettivamente anti-economiche? Tema non irrilevante, quest’ultimo, non a caso sollevato da più voci anche all’Assemblea sinodale dello scorso fine settimana con al centro bilancio e prospettive delle Unità pastorali. La nota comune: la crescente difficoltà a mantenere in vita parrocchie dal bilancio sempre più in rosso, incapaci di auto-sostenersi anche solo per pagare il riscaldamento e le bollette elettriche della chiesa o dell'oratorio.
Ora, facili soloni a parte (sembra già di sentirle, in sottofondo, le voci “fuori dal tempio”, ma anche tra mura “amiche” sui soldi in cassa della Chiesa…), il problema vero è far comprendere come il destino non sia in mano alle ragionerie brave a far di conto e a spostare risorse per tamponare le falle: questo approccio è solo l’eredità della stagione delle vacche grasse, ormai lontana anni luce, qui come nella macchina amministrativa pubblica, a sua volta costretta a una snervante cura dimagrante.
Oggi il futuro è nelle mani dei cittadini come dei fedeli. L’equilibrio tra senso di appartenenza ad una cerchia concentrata e una partecipazione più vasta, tra la difesa delle singole identità e ragionamenti di “secondo” livello, anche in ottica di maggiore razionalizzazione, fa sì che nessuno possa sottrarsi all’esigenza di interrogarsi sulla propria comunità come parte di sé. Chiunque dica comunità parla di se stesso e di quanti condividono una medesima passione per il bene comune, sia civile sia religioso. Per questo, anche la comunità ecclesiale non potrà sopravvivere a lungo all'assenza di corresponsabilità, senza la quale i suoi membri sono spesso indotti a giudicarla come realtà terza, erogatrice di servizi di cui si è spettatori e alla quale si destina al più un’elemosina quasi estorta. Attenzione, perché è arrivato il giorno in cui è in ballo lo stesso mantenimento in vita di quel modello comunitario e dei suoi luoghi simbolici.
Naturale che in questa fase serpeggi la tentazione di alzare le mani in segno di resa. Mentre è proprio questo il momento di ritrovare motivazioni e rilanciare, con forme nuove, il senso di una presenza che ha sempre impastato di lievito evangelicamente laico anche il contesto civile. C'è però una credibilità da recuperare per una Chiesa “modello Francesco” che non è affatto un percorso scontato. Con una certezza: il cammino non può essere delegato a nessuno, non dipende solo dal passo di altri, e anche in presenza di un'istituzione che faticasse a trascinare, ognuno può e deve sentirsi chiamato in causa in prima persona.
Al di là di soluzioni pastoral-organizzative, l’Assemblea sinodale di questo fine novembre ha rilanciato l’urgenza (e la bellezza) per la Chiesa di Dio che vive in Trento di ripensare se stessa e di tornare a farlo con uno stile partecipato, sinodale appunto, in cui tutte le sue componenti – e forse non è un caso che questo sia avvenuto nel “focolare” del centro Mariapoli di Cadine – abbiano diritto di parola e di voto. Un altro modo di alzare le mani. Una bella lezione di democrazia. Ma non solo. Perché per i credenti, a ben guardare, l’opzione “mani in alto” sottende anche altre motivazioni. L'Esodo insegna: Giosuè vinceva su Amalek solo quando Mosè riusciva a tenere le braccia alzate verso Dio. E quando cedette, furono Aronne e Cur a sostenere le sue mani. L'esito è noto: questione di fiducia.
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