All’ironico film sui tifosi della corsa francese la Genziana d’oro del festival trentino. Ma la giuria segnala anche “Il confine recintato”
Divertente e anche ironico. Senza esagerare, quasi uno spaccato antropologico su un gruppo di anziani francesi appassionato di ciclismo che aspetta passare i girini del Tour sulla salita dell’Izoard. “La Grand Messe”, documentario dei francesi Méryl Fortunat-Rossi e Valéry Rosier, è stato premiato dalla giuria del 67esimo Trento Film Festival quale miglior film in concorso. Non è stata una genziana d’oro memorabile, di quelle che si ricorderanno. E’ arrivata a sorpresa, almeno a detta di molti e, al di là della godibilità immediata del doc, è da dubitare che lascerà il segno. Nonostante in concorso ci fosse ben altro. Tantoché i giurati hanno sentito quasi la necessità, forse, di assegnare un loro Premio, che non fa parte di quelli canonici e che può essere dato come no, a “Il confine recintato” (“The Border Fence”) dell’austriaco Nikolaus Geyrhalter, già passato allo scorso Trieste Film Festival e miglior doc alla Diagonale, il festival del cinema di Graz, in Austria.
“Vita Trentina” lo ha presentato nel numero del 5 maggio scorso. Affronta un tema di estrema attualità, quello della “paura” (o meno) del fenomeno migratorio fomentata da certa politica e che le popolazioni, in questo caso quelle al di là e al di qua del confine del Brennero, riflettono in maniera molto più articolata e seria rispetto a tanti loro “rappresentanti” che siedono al governo o nelle aule parlamentari. Se c’è un documentario che è sembrato degno di particolare attenzione, e infatti è stato premiato con la genziana d’oro per il miglior film di esplorazione o avventura, questi è “Bruder Jakob, schlafst du noch?” di un altro austriaco, Stefan Bohun. In parte ambientato nell’alta valle tirolese di Lareintal, è una storia intima e commovente, autobiografica. I quattro fratelli Bohun, tra cui il regista, ripercorrono il “cammino” che ha portato al suicidio il loro quinto fratello, fino ad una camera di albergo di Porto, in Portogallo. “E’ un documentario attento e intimo – riflette il regista – che parla sia del dirsi addio che del ritrovarsi. I vari filmati d’archivio che mostrano i fratelli da bambini e adolescenti, in cima alle montagne in estate, nuotando insieme, ballando e giocando selvaggiamente, trasmettono una leggerezza inattesa. Non si tratta tanto di un film sulla tristezza, quanto sulla necessità del dolore e sulla ricerca di coloro che ci accompagnano nella vita”. Fuori dal palmarès, invece, un paio di doc che avrebbero potuto meritare maggiore risalto. Il primo è “Return to Mount Kennedy” dell’americano Eric Becker. Nel 1965 Robert Kennedy salì, insieme a Jim Whittaker, primo americano a conquistare l’Everest, una montagna canadese intitolata al fratello John, il presidente Usa ucciso a Dallas. Cinquant’anni dopo, ci riprovano, fallendo, i figli del team originario, tra cui Chris Kennedy. Il secondo è “4 years in 10 minutes” di Mladen Kovacevic che documenta l’ascesa all’Everest del primo alpinista serbo che c’ha provato, alla fine degli anni Novanta. Un doc visionario costruito sulla scorta di una serie di cassette vhs ritrovate, girate in quota mentre nei Balcani cadevano le bombe Nato su Belgrado.
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