Di fronte ai quotidiani eventi, drammi, violenza, chiusura di porte e confini che i mezzi di informazione ci sbattono in faccia in tempo reale, credo impossibile non trovarsi a riflettere su questo tempo, ma nello stesso momento, provare senso di impotenza.
I nodi vengono al pettine: questa situazione, che oggi si concretizza sull’emergenza epocale dei profughi, deriva dal modello di sviluppo imperante, da quella “cultura dello scarto” stigmatizzata da Papa Francesco.
La prima strategia necessaria non può che partire da un'inversione culturale, provando ad immaginare una più equa distribuzione delle risorse e dei beni. Se non per scelta consapevole saranno gli eventi a dare una svolta verso un’economia più giusta, anche recuperando valori perduti (condivisione – solidarietà – gratuità – servizio) ancora presenti in molte persone e gruppi
Pierluigi
Caro Pierluigi, grazie della lunga lettera che ho dovuto ridurre per ragioni di spazio. L’argomento da te toccato rimanda al punto fondamentale del modello di sviluppo che governa il mondo globale. Prima di affrontare questo tema vorrei però soffermarmi su quel “senso di impotenza” di cui tu hai parlato.
Penso che sia una sensazione provata da tanti, soprattutto da chi vorrebbe cambiare le cose, da chi possiede la sensibilità di guardare oltre i propri interessi, individuali e nazionali. Questo sentimento di sfiducia è forse alimentato proprio dal circuito dell’informazione: ormai sappiamo tutto, vediamo le immagini di paesi lontani come se fossero il cortile di casa, ci fanno “orrore la fame, la guerra, le ingiustizie del mondo” come cantava Giorgio Gaber in una splendida canzone. Non possiamo nasconderci dietro l’ignoranza, conosciamo ogni cosa, ma non possiamo farci nulla.
Questo senso di impotenza tuttavia può minare gli stessi fondamenti della democrazia. Perché impegnarsi se alla fine la nostra goccia si disperderà in un oceano di indifferenza? Cosa possiamo fare noi di fronte al potere finanziario e militare che guida le sorti del mondo? Ma la domanda può essere ancora più radicale: abbiamo la possibilità di cambiare il corso della storia, oppure tutti, ricchi e poveri, governanti e cittadini, despoti e sudditi, siamo soltanto ingranaggi di un processo inevitabile e senza scopo?
Credo che invece dobbiamo riprendere in mano la consapevolezza di riuscire a modificare la realtà che ci circonda con le nostre scelte quotidiane, piccole, circoscritte magari a un determinato ambito. Fare la spesa al supermercato riguarda una dimensione etica. Impegnarsi nella nostra comunità significa resistere al male. Credere in valori come la sobrietà, la giustizia sociale, la solidarietà e l’uguaglianza, vuol dire già lavorare per l’alternativa all’attuale modello di sviluppo. Non c’è una strada diversa: cedere su questo implica l’accettazione di un mondo segnato dalla violenza.
Entrando nel concreto del modello economico oggi imperante, va sottolineato come esso si basi sull’aumento della produttività, a fronte di minori spese (di qui la delocalizzazione in paesi in cui la manodopera è a più basso costo, perché i lavoratori hanno pochi diritti), e sui consumi, sull’apertura di nuovi mercati. Ora però andiamo incontro a diversi limiti, il più importante dei quali è senza dubbio quello ambientale. Non serve essere economisti e scienziati per intendere questa semplice affermazione: se tutti gli abitanti della terra vivessero secondo il nostro stile di vita, non ci sarebbe posto per tutti. Il pianeta non ce la farebbe più. D’altro canto, a mio avviso, l’uomo possiede l’istinto innato al miglioramento della propria condizione, vuole continuare a stare meglio, vuole conoscere, innovare. Per questo sono perplesso di fronte agli slogan della “decrescita felice”. Preferirei invece parlare di “modello sostenibile di gestione delle risorse”, lasciando spazio alla fantasia e alle scoperte tecnologiche che, se utilizzate con intelligenza, potrebbero davvero risolvere molti problemi.
Alla fine però questo cambiamento deve essere sostenuto da una svolta etica capace di superare l’individualismo distruttivo. Non dico che riusciremo a pensare alla prossima generazione, ma al nostro vicino di casa forse si. Pensare che le nostre scelte riguardano gli altri, incidono sulla vita del nostro prossimo che, come cristiani, dovremmo addirittura amare.
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