C’è da arrancare. Ma chi ci sostiene?

I lettura: Genesi 22,1-2.9a.10-13.15-18;

II lettura: Romani 8,31b-34;

Vangelo: Marco 9,2-10

Vi sono anche giorni radiosi nella vita per fortuna, momenti di esaltazione, occasioni di festa, di spensieratezza, di allegria, ma i giorni feriali sono sempre di più di quelli festivi; i periodi lavorativi sono sempre più lunghi delle parentesi di vacanza… Insomma, la vita è un cammino in cui si sperimenta più spesso la fatica di arrancare che la soddisfazione di fermarsi a guardare il panorama. Sbaglia chi pensa al cristianesimo, all’esperienza della Fede, come a un’avventura faticosa, snervante, lugubre alla fin fine. Ma, d’altro canto, non è meno sbagliata l’idea (propagandata dalla cultura degli spot televisivi) che la vita è un’avventura tutta allegra e spensierata, e che è da furbi godersela tutta, spremendola come un limone…

Lo sappiamo, è un’idea che non sta in piedi, è semplicemente una banalità. Magari ci fossero soltanto gioie e gratificazioni; ci sono anche tribolazioni, apprensioni, tappe o stagioni di oscurità, in cui è come brancolare nel buio, o nella nebbia… Tant’è vero che, soprattutto in quei momenti, ognuno si domanda: Ma c’è un senso in tutto questo? Faticare va bene, ma c’è un risultato per cui valga la pena faticare? Soffrire poi…che senso ha soffrire? Tutti si pongono questi interrogativi. Non tutti trovano le risposte, anche perché le risposte sono aldilà del nostro raggio di visuale. Le risposte ce le può dare qualcuno che vede oltre il nostro orizzonte; qualcuno cui poter dare fiducia.

È per questo che Gesù porta Pietro, Giacomo e Giovanni su quel monte, come ci riferisce il vangelo. Anzi, per essere più esatti dovremmo dire: è per questo che Gesù, prima di condurci a Gerusalemme ad affrontare la Pasqua – ci porta su quel monte e si trasfigura davanti a noi: per assicurarci che la Via crucis (la sua ma anche ogni nostra al suo seguito) sfocerà nella pienezza del Regno di Dio, dove non c’è più lutto, né sofferenza, né affanno.

Si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti…”: è Gesù risorto costui, il Gesù della mattina di Pasqua! Ma come può essere, se la Pasqua deve ancora arrivare?

La trasfigurazione è un anticipo, un assaggio della Pasqua che verrà. È così sensibile il Signore alla nostra esperienza umana, conosce così bene la nostra fatica e la nostra debolezza, che non vuol tirare troppo la corda della Fede; non si accontenta di dirci: “eh… abbiate pazienza, aspettate, vedrete…”, no. Ci dà un anticipo di quello che aspettiamo, di quello che vedremo.

Sempre, a dire il vero, il Signore ci dà qualche anticipo, qualche piccolo assaggio di quella pienezza di vita che ha preparato per noi. Ognuno, se guarda la sua esperienza, il cammino della sua vita, sa che è così.

Ma sono momenti rapidi, sprazzi di luce che durano quel che durano: Pietro e gli altri avrebbero voluto rimanere là su quel monte, ma Gesù – che li aveva condotti lassù – li invita a scendere con lui: “Torniamo alla vita…occorre andare a Gerusalemme… c’è la croce da affrontare: non confondete l’anticipo con il traguardo definitivo. La pasqua di risurrezione verrà, certamente, ma prima c’è il deserto, la croce, il Calvario…E’ lungo il tragitto”.

E dove troviamo la forza per percorrerlo, per attraversare il deserto, per restare in piedi e camminare fino al traguardo? Nella parola di Dio. È a questo che allude l’invito che risuona su quel monte: “Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!”. Ascoltatelo! E’ la sua Parola che ci tiene in piedi. Le prove che il cammino ci riserva (ogni deserto ha le sue: lo vedevamo domenica scorsa…) è la Parola che ci consente di superarle! E’ questa a farci compagnia, la luce sicura che non viene mai meno, neanche quando tutto si spegne e ci troviamo immersi nell’oscurità.

Oscurità era per Abramo salire quell’altro monte a sacrificare suo figlio. Per comando di Dio! Se non era una prova quella, cos’altro è una prova? Il primo dei credenti – Abramo appunto – si è trovato di fronte a un’alternativa tremenda: chi viene prima, Dio o mio figlio? Poi – nel momento cruciale – ha scoperto che se Dio viene prima, è tutto di guadagnato: per lui e anche per suo figlio. L’esperienza comunque fu drammatica. Cos’è che ha sostenuto Abramo in quella prova se non la Parola di quel Dio al quale si era affidato senza condizioni?

Cos’è che sosterrà Gesù nell’ora delle tenebre quando si profila davanti a lui il calvario, la croce, e il fallimento di tutta la sua missione? La fiducia nel Padre: sapeva che non l’avrebbe affatto abbandonato, anche se tutto portava a pensarlo. Traiamone la conclusione allora: la Parola è luce, è sostegno, è forza; sì, ma occorre amare Colui che ce la dice; occorre amarlo in modo così incondizionato da affidargli tutta la propria vita; altrimenti è una parola che risuona estranea, lontana, e della quale si percepiscono solo esigenze, obblighi, pretese; una parola che chiede sempre troppo rispetto a quello che se ne riceve. Occorre amare la Parola, o meglio, quel Dio che la pronuncia per noi: amarlo con tutto il cuore, l’anima e le forze.

Allora è possibile andare avanti con fiducia anche quando c’è da arrancare e da faticare. Come è stato per Gesù, come è accaduto – prima di lui – ad Abramo, il nostro padre nella fede.

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